ROMA – «Tutto è iniziato in uno di quei momenti in cui sei mezzo sveglio e mezzo addormentato. Ho immaginato un gruppo di batteristi, un po’ come una seconda linea di batteria di New Orleans o di una scuola di samba in Brasile, che si muovono sul palco, suonando insieme, creando un unico ritmo. E ho pensato: “Che impatto straordinario sarebbe!”». David Byrne racconta così ad Apple Music le ispirazioni per American Utopia, ovvero il film-concerto del 2020 diretto e prodotto da Spike Lee (lo trovate in streaming su CHILI), da una sceneggiatura dello stesso Byrne. Il film è una registrazione live di un’esibizione a Broadway, che ha supportato l’album omonimo del musicista uscito nel 2018. Ecco le sue parole.

IO & SPIKE – «Com’è stato lavorare con lui? Mi sono fidato di Spike. È venuto allo spettacolo, e quando eravamo alle prove ha subito detto: “Sì, voglio farlo”. Ovviamente non avevamo un budget importante, non una cifra enorme. Abbiamo trovato i soldi e ho chiesto a Spike: “Ma c’è qualcosa che cambieresti?”. In un film si può cambiare il finale, tagliarlo. Ma ha detto: “No, no, no. Funziona tutto così com’è…”. E da lì siamo partiti…».
IO & JONATHAN – «Spike e Jonathan Demme, che nel 1984 aveva diretto con me e i Talking Heads un altro film come Stop Making Sense, erano molto vicini. Da sempre. Erano amici ed entrambi ammiravano il lavoro reciproco, si facevano sempre i complimenti. Non a caso c’è stato un momento durante le riprese di American Utopia in cui Spike ha alzato lo sguardo al soffitto e ha detto: “Jonathan, vedi cosa stiamo facendo qui? Vedi cosa stiamo facendo?”…»

IO E LO STUDIO – «Mi ci sono voluti parecchi anni prima che mi sentissi a mio agio in uno studio di registrazione. È un ambiente strano. Sei un po’ isolato dagli altri musicisti, in modo che il mixer possa correggere o aggiustare o regolare il bilanciamento degli strumenti. Ma per farlo, sei un po’ distante. Non stai esattamente suonando nella stanza, ma sei nella stessa stanza. Trovo che con l’avvento della registrazione casalinga, potendo registrare utilizzando software e laptop, posso ottenere metà lavoro e poi portarlo in studio per completarlo. Il che mi fa sentire molto più a mio agio…».
IO E IL PALCO – «Il palco e lo studio di registrazione, o semplicemente la scrittura a casa, sono aree sicure. Mi sento come se potessi fare qualunque cosa, dire qualunque cosa, scrivere cose, esibirmi. E mi è stato permesso di farlo. Ma poi, tornando alla mia vita normale, mi sono sentito un po’ meno a mio agio. Ora sono abbastanza a mio agio socialmente, direi, ma ci sono voluti decenni. Essere sul palco, o scrivere, è invece molto liberatorio. È meraviglioso».

IO E BRIAN – «Brian Eno oltre ad essere molto innovativo, spinge le persone con cui lavora ad andare fuori dalla loro zona di comfort. L’ha fatto con me, l’ha fatto con i Talking Heads, il che è davvero produttivo. A volte non è così comodo ma è uno dei modi in cui Brian affronta questo genere di cose. Penso che tutti i produttori lo facciano in una certa misura. Quindi, quando qualcosa è in fase intermedia, e non è ancora abbastanza buono, ecco che spingono sull’entusiasmo, in modo che tu non cada indietro…».
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