ROMA – Che strano oggetto Cowboy Bebop. No, non certo l’anime creata da Hajime Yatate, bensì la serie Netflix ispirata a quello. Da una parte, quindi, un’opera cult, considerata quasi all’unanimità una delle migliori produzioni animate nipponiche di sempre, dall’altra uno show in dieci episodi che deve destreggiarsi tanto con il mito quanto con gli agguerriti fan dell’anime, da sempre notevolmente poco inclini verso qualsiasi deviazione di genere e conseguenti adattamenti. Il punto però è che ogni prodotto andrebbe giudicato per quello che è, considerando che i meri copia-e-incolla farebbero comunque storcere il naso agli ultrà, costantemente insoddisfatti e – chissà perché – divulgatori di battaglie che non hanno motivo di esistere.
Detto questo, l’operazione sviluppata da André Nemac, su sceneggiatura di Christopher Yost (e con l’autore originale Shinichirō Watanabe a supervisionare, attenzione), è una serie che, alternando qualche scivolone, diverte e intrattiene nel senso più stretto del termine. Diciamolo subito: le differenze tra l’anime e la serie sono sostanziali e, forse, anche necessarie. La Tomorrow Studios di Nemac ha preso spunto da diverse parti dei 26 episodi che compongono la serie andata in onda per la prima volta tra il 1998 e il 1999, attualizzandone il contesto e soprattutto strizzando l’occhio ad un’inclusività che ribalta la prospettiva. Due esempio? Jet Black che diventa afro, e il personaggio non binario di Gren interpretato da Mason Alexander Park.
La storia di Cowboy Bebop è però quella che i fan conoscono. Chi non la conosce, invece, verrà catapultato in un universo che intreccia il western e il punk, il pulp e il fantasy, cyberpunk e noir, con chiari rimandi a Sergio Leone, Ridley Scott e Tarantino. Sì, i più grandi, ammiccati e citati in una trama che si svolte in un lontano futuro (il 2021…), quando la Terra è ormai inabitabile. L’umanità ha colonizzato gli altri pianeti, e le autorità hanno messo in piedi un sistema di controllo che supporta i cacciatori di taglie. Tra loro Spike Spiegel e Jet Black, agguerriti, diversi e litigiosi, alle prese con una missione impossibile e i demoni che li tormentano. Durante una missione, a bordo dell’iconica astronave Bebop, faranno salire a bordo anche Faye Valentine e il corgi ultra-intelligente Ein (e sì, il suo tenero musetto è oggettivamente è la cosa migliore della serie).
Ad interpretare i tre protagonisti ci sono John Cho, Mustafa Shakir e Daniella Pineda, tutti decisamente in parte, mentre Alex Hassell è il villain Vicious, reso abbastanza posticcio da una discutibile parrucca bianca. Strano perché poi Cowboy Bepob versione Netflix mantiene una forte cura della messa in scena, oltre al pericoloso equilibrio di identità: essere un adattamento con le dinamiche originali e intanto essere il (pericoloso) adattamento di un’opera pop e leggendaria. Ma che André Nemac sia stato attento alla produzione lo dimostra l’eccellente colonna sonora di Yoko Kanno, tornata a bordo della Bebop come avvenne nel 1998. Uno score pazzesco e dai toni jazz, che rende la serie un’esperienza tridimensionale e, a suo modo, sorprendentemente riuscita. Alzate il volume.
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