ROMA – Dopo il passaggio a Cannes che ha visto Francis Ford Coppola di ritorno sulla Croisette a cinquant’anni dalla Palma d’Oro de La Conversazione e a quarantacinque da quella vinta con Apocalypse Now, arriva ora finalmente al cinema con Eagle Pictures dopo mesi di chiacchiere, speculazioni e voci Megalopolis, ovvero il nuovo e tanto agognato film del regista, finito a 85 anni compiuti. Un progetto di cui l’autore delineò i contorni addirittura all’inizio degli anni Ottanta, tra il 1979 di Apocalypse Now e il 1981 Un sogno lungo un giorno, e definito dallo stesso regista come l’imperfetto punto di incontro tra Metropolis di Fritz Lang del 1927 e La Fonte Meravigliosa, ovvero il romanzo originale di Amy Rand del 1943, poi trasposto al cinema nel 1949 da King Vidor con Gary Cooper. Insomma, una doppia suggestione da cui partire niente affatto casuale.

Megalopolis – che in America ha fatto flop incassando solo 8 milioni di dollari e da subito ha diviso critica-e-pubblico – ci viene presentato immediatamente come un’epopea, una tragedia romana ambientata in un’immaginaria America moderna in piena decadenza. La città di Nuova Roma deve cambiare, il che crea un grande conflitto tra César Catilina (Adam Driver), architetto e artista geniale con il potere di fermare il tempo, e il sindaco arciconservatore Francis Franklyn Cicero (Giancarlo Esposito). Il primo, sogna un futuro utopico ideale per New York dopo che una catastrofe l’ha totalmente distrutta, mentre il secondo rimane attaccato a uno status quo regressivo che protegge l’avidità, i privilegi e le milizie private. La figlia del sindaco e jet-setter Julia Cicero (Nathalie Emmanuel), innamorata di César, è combattuta tra i due uomini e dovrà scoprire cosa sembra meglio per il futuro dell’umanità, ma c’è tanto altro.

Su ammissione di Coppola, il film è una combinazione di appunti, ritagli e album di intuizioni raccolte negli ultimi quarant’anni, da Marco Aurelio a Emerson e Shakespeare. Non a caso, già nel 2001 tentò di portarlo alla luce con un cast da sogno che avrebbe visto Paul Newman, Uma Thurman, Robert De Niro, Nicolas Cage, Leonardo DiCaprio, Russell Crowe, quei James Gandolfini ed Edie Falco (poi coppia ne I Soprano), e Kevin Spacey a dividersi la scena. Il destino volle che quella versione di Megalopolis non andasse oltre una lettura della sceneggiatura al tavolo con il cast. L’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre, infatti, mandò Megalopolis in un development-hell senza via di scampo. Questa volta invece è tutto vero però, con, oltre a Driver, Emmanuel ed Esposito, anche Aubrey Plaza, Shia LaBeouf, Jason Schwartzman, Talia Shire, Laurence Fishburne, Kathryn Hunter, Jon Voight e Dustin Hoffman.

A loro il compito di dare a sostanza a Megalopolis, progetto personalissimo, un’ossessione per Coppola tanto quanto lo è stato L’uomo che uccise Don Chisciotte per Terry Gilliam (con sempre Driver protagonista, guarda caso). Un sogno rincorso per tutta una vita, e per cui, incapace di trovare un produttore che lo sostenesse, ha scelto di finanziare tirando fuori 120 milioni di dollari di tasca propria. Una scelta folle direte voi? Non per lui, perché per Coppola questo è il naturale ordine delle cose: «Perché ho rischiato il mio patrimonio su Megalopolis? Vi svelo un segreto: non me ne è mai fregato nulla dei soldi! Sapevo che Megalopolis non sarebbe stato come gli altri film. E in fondo, dato che lo stavo producendo, pensavo di avere il diritto di farlo come avrei voluto…». E così è stato, a partire dall’originale concept alla base: realizzare un’epopea romana ambientata nell’America contemporanea.

Il motivo? Geniale nella sua solo semplicità: «L’America è stata fondata sulle idee della Repubblica Romana. Noi non volevamo un Re, Roma non voleva un Re. Così hanno inventato una nuova forma di governo, la Repubblica, con il Senato e con la legge e con tutte le cose che abbracciamo. Abbiamo persino costruito le nostre città somiglianti a Roma. Se ricordate il grande edificio che demolirono, la Penn Station, era ispirato alle Terme di Caracalla. Quindi si, volevo fare Megalopolis, ma non avevo idea che la politica di oggi lo avrebbe reso tanto rilevante. Ciò che sta accadendo in America, nella nostra repubblica, nella nostra democrazia, è esattamente il modo in cui Roma ha perso la sua Repubblica migliaia di anni fa. Il mio sogno, la mia speranza, è che gli artisti del nostro Paese facciano luce su quello che sta succedendo».

Ma soprattutto per non avere il rimpianto di non averci provato. Perché gli anni sono ottantacinque per Coppola e Megalopolis è il frutto di una rincorsa creativa quarantennale tra ispirazioni di ogni genere e battute d’arresto sul più bello. Un progetto così, al di là di un discorso critico sulla sua effettiva resa filmica, è il coronamento spirituale di una carriera indescrivibile a parole: «Megalopolis è un film sul tempo e ogni artista ha il potere di controllarlo. Ci sono così tante persone che quando stanno per morire dicono che avrebbero voluto poter fare questo, quello. Non io. Quando morirò dirò che ho potuto vedere mia figlia Sofia vincere un Oscar, ho potuto produrre vino e realizzare tutti i film che volevo fare. Sono stato e sarò così impegnato a pensare a tutte le cose che devo e voglio fare, che quando morirò, non me ne accorgerò nemmeno».

E questo ci porta alla base di Megalopolis, il controllo del tempo. Secondo Coppola: «I pittori lo cristallizzano, i ballerini gli danzano nello spazio intorno. L’arte tutta riguarda il controllo del tempo», nel caso del cinema – e quindi del regista – il tempo è narrazione e sua manipolazione nel flusso di immagini del montaggio. Ma non è di minutaggio che parliamo – qui, per la cronaca, sono 138 i minuti, e scorrono in armonia nel loro sviluppo che va a dare forma e sostanza alla (meravigliosa) favola filmica di Coppola – ma di tempo narrativo. Cesar ha la capacità di fermare il tempo e di muoversi nella sua sospensione. «Time Stop!» dice. Cristallizza un’immagine, si guarda e si muove intorno, immagina cosa può esserci nello spazio circostante. Prende appunti, costruisce, demolisce, riparte.

Il suo non è un superpotere anche se in un primo momento, a una visione approssimativa di Megalopolis, potrebbe sembrare così. No, è espressione di qualcos’altro. È la creatività. Ciò che compie Cesar è un atto creativo che nasce dal più profondo dei sentimenti: «Beh, non c’è nulla di cui aver paura se ami o hai amato. È una forza inarrestabile. È infrangibile. Non ha limiti. È dentro di noi, è intorno a noi, è estesa nel tempo. Non è nulla che puoi toccare, eppure guida ogni decisione che prendiamo. Ma abbiamo l’obbligo reciproco di porci domande. Cosa possiamo fare?» dice uno dei momenti dialogici del film, ed è proprio sull’amore puro che nasce Megalopolis. Nello specifico quello di Cesar, dapprima verso la moglie scomparsa e tenuto in vita, nel tempo, in un’illusione sognata, poi verso Julia sino a riscoprirne la purezza dei giorni felici in un nuovo inizio.

«Questa società, il modo in cui viviamo, sono gli unici? E quando ci poniamo queste domande, quando c’è un dialogo su questo, è fondamentalmente un’utopia». Su qualcosa di talmente radicato da spingere l’individuo a sacrificarsi verso un ideale nobile pur di provare a cambiare la società e le sue regole. Quelle di Nuova Roma, che nella narrazione di Megalopolis diventano l’opportunità per Coppola di realizzare una fiaba filmica in continuo e serratissimo dialogo tra empirico e teorico, cinismo e sogno, finzione e realtà – o più semplicemente sui desideri umani e la loro realizzazione – tutta percorsa di immagini poetiche, oniriche e di grande invenzione visiva. E poco importa del kitsch, le esagerazioni, l’overacting e perfino di quel registro parodistico che perversa in ogni schizofrenica sequenza, è commuovente che Megalopolis sia arrivato a noi. Solo per questo non va perso per nessuna ragione al mondo.
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