ROMA – Un padre e una figlia. Il cinema e la vita. L’infanzia che sembra perfetta e poi invece lo smarrimento di quando si diventa grandi, quando si sbaglia tutto, quando nulla sembra più giusto. E allora? E allora cadere e rialzarsi, ricominciare, invecchiare, diventare fragili, lasciarsi andare ma non perdersi mai, in bilico tra ricordi e rimpianti e quel tempo lì, proprio quello che ci vuole per salvarsi. Con Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano ecco finalmente in sala Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini – ora al cinema con 01 Distribution dopo il passaggio fuori concorso a Venezia – un film che – evidentemente – non è un semplice film, ma un pezzo di vita, pura autobiografia, ricordi masticati e incollati insieme fino a diventare cinema.

Un film intimo per la Comencini, una lettera d’amore al padre regista Luigi, scomparso nel 2007 (ma ve lo ricordate Lo scopone scientifico?), ma anche al suo mondo e al suo cinema: «Dopo tanti anni passati a fare il suo stesso lavoro cercando di essere diversa da lui, ho voluto raccontare quanto ogni cosa che sono la devo a lui», ha spiegato la regista. «Ho voluto rendere omaggio a mio padre, al suo modo di fare cinema, al suo modo di essere, all’importanza che la sua opera e il suo impegno hanno avuto per il nostro cinema, all’importanza che la sua persona ha avuto per me. Forse, mi sono detta, forse ora sono abbastanza anziana, ne sono capace, forse ora sarò all’altezza di questo racconto. Forse, ora, è arrivato il momento di dirgli grazie».

E non hanno certo bisogno di presentazioni Luigi Comencini e il suo mondo (tele)filmico. Pane, amore e fantasia, Pane, amore e gelosia, Tutti a casa (il suo capolavoro con un Alberto Sordi sensazionale), La ragazza di Bube. E poi Incompreso, I bambini e noi, Le avventure di Pinocchio, Il gatto, L’ingorgo, Cuore, La Storia. Un cinema puro, senza tempo, popolare ma non per questo semplice, e immediato perché capace di parlare al pubblico attraverso un linguaggio diretto. Tre le maglie narrative de Il tempo che ci vuole ecco quindi emergere non solo il processo creativo e la disposizione d’animo sul set – generoso con le comparse e i tecnici, distaccato ma attento con i suoi interpreti – ma anche il Comencini-pensiero su come approcciarsi al mezzo filmico.

«Prima la vita e poi il cinema. Prima la vita. Se non lo capisci è inutile che lo fai il cinema» recita la linea dialogica più bella di tutto Il tempo che ci vuole che – per certi versi – in fondo ne inquadra proprio la ratio filmica: «Questo film è il racconto molto personale di momenti con mio padre emersi dai ricordi e rimasti vividi e intatti nella mia mente. Un racconto personale che credo però trovi la giusta distanza nel fatto che in mezzo al padre e alla figlia c’è sempre il cinema come passione, scelta di vita, modo di stare al mondo. Intorno gli anni delle stragi, delle rivoluzioni sociali, della comparsa delle droghe, che stravolsero la vita di una intera generazione».

Prima che cinema, infatti, è vita Il tempo che ci vuole. È la vita di Francesca e Luigi Comencini. Una figlia e un padre, e le stanze dell’infanzia. L’infanzia di lei che, intimorita, insicura ma giocosa, incantata dalle luci e dai colori dei set cinematografici, muove i suoi primi passi nel mondo relazionandosi con il padre e il suo genio creativo, e di lui che fino all’ultimo guarda il mondo con la purezza degli occhi di un bambino. Un bambino capace di emozionarsi fino alle lacrime dinanzi alla bellezza delle immagini di un film come Paisà, che parla sottovoce, poco e bene, che crede che non si nasca cattivi ma che al massimo lo si diventi, e che sa dell’importanza del fallimento: «Sempre tentato, sempre fallito, non importa: Fallire di nuovo, fallire meglio».

Una figlia e un padre per cui il mondo si rovescia quando da bambina diventa donna. Una donna smarrita, disillusa ed errante, schiacciata dal peso di un cognome importante, in cerca di emancipazione come di approvazione nel pieno della rivoluzione giovanile e degli anni di piombo. Quindi le droghe, il distacco – sottolineato dalla Comencini, in regia, con dei campi lunghi magistrali che rendono il corridoio di casa infinito e a perdita d’occhio – il precipizio, l’abisso e il riavvicinamento nel segno dell’amore incondizionato. Nel mezzo, sogni meta-cinematografici, transizioni poetiche, momenti onirici e fiabeschi, confessioni a cuore aperto e mente lucida e ricordi calcolati e armonizzati in montaggio morbido su cui l’inedita coppia Gifuni-Maggiora Vergano viaggia allo stato dell’arte per intensità e dolcezza.

È nelle immagini filmiche, però, che vive Il tempo che ci vuole, nel cinema che mostra ciò che trova, in purezza, senza filtri e ricami, ampliandone la portata emotiva: «Le immagini partono dai ricordi e come i ricordi hanno una amplificazione di alcuni segni salienti e la cancellazione di altri. Immagini scarne, in cui non c’è quasi niente tranne loro due e in cui il segno che è presente ha sempre qualcosa di esagerato: se qualcosa è grande è molto grande, se è lontano è molto lontano, se c’è un raggio di luce è molto luminoso, se qualcosa è vicino è molto vicino…» ci dice la Comencini. Perché attraverso l’immaginazione il cinema può salvare e può salvarci, ricostruendoci.

Può riscrivere la storia, il cinema, la propria storia. Si può rivivere un ricordo per com’era o renderlo qualcos’altro ancora. Lo si può modificare, manipolare, addolcire o drammatizzare. Si può far dire qualcosa che non si è mai avuto il coraggio di dire o di fare, o magari di non farlo. Si può fingere di essere qualcos’altro attraverso il cinema, o magari esserlo per davvero. Il tempo che ci vuole è anche questo. Un film confessione, una lettera d’amore intima e dolce a un padre mai dimenticato e che non se n’è mai andato, ma anche una ridiscussione di sé stessi nelle più piccole parti del proprio vissuto. O in altre – e forse perfino più semplici – parole, un film bellissimo.
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