UDINE – Oltre alla presentazione dei nuovi migliori lungometraggi orientali, al Far East Film Festival si esplora e si celebra il passato di una cinematografia sfaccettata e vastissima per tracciarne i punti cardine, le svolte, le opere fondamentali. Ecco, da questo punto di vista, Cure è una di quei film che hanno lasciato un segno, costituendo un prima e un dopo all’interno del genere horror. Scritto e diretto da Kiyoshi Kurosawa nel 1997, Cure si pone come capostipite dell’evoluzione dell’horror giapponese in un genere più stratificato, che ne utilizza gli stilemi per poi però affrontare tematiche psicologiche, lavorando per sottrazione e dentro una realtà più metafisica piuttosto che di jump scare o altre estremizzazioni. Kurosawa ruba a piene mani dagli stilemi classici del noir e del thriller americano e li trasporta in una storia di omicidi inspiegabili, malattie psichiche e soggiogamenti mentali.
Ma di cosa parla Cure? Un ragazzo che ha perso la memoria e non ricorda nulla del passato vaga per una Tokyo cupa e piovosa alla ricerca di risposte, ma la sua scia lascia una traccia di sangue indelebile: ipnotizza chi incontra e li spinge a uccidere attraverso veri e propri atti di follia incontrollati. A cercare di risolvere un caso che sembra per tutti inspiegabile ci proverà il Detective Takabe (Kōji Yakusho) un uomo scuro ed enigmatico, che vive con una moglie malata e che verrà spinto nelle piaghe più profonde della mente, dell’emotività umana per comprendere il lievissimo confine tra bene e male e per obbligarsi ad affrontare le intime problematiche che non è mai riuscito a sfidare. All’apparenza, Cure è un film violento, crudo, diretto, con il classico stilema del rapporto tra detective e sospettato, con il loro scontro e la loro sovrapposizione, ma è nei suoi dettagli e nelle sue pieghe più tecniche e registiche che si dimostra essere un’opera imponente.
Kurosawa alla violenza e al sangue alterna sequenze oniriche e metafisiche che trasportano il film su un altro piano logico e filosofico, alterna piani sequenza immobili a sequenze flash frenetiche, toglie quasi del tutto la musica per lasciare spazio solo ai suoni, ai colpi improvvisi, ai tremolii, al fruscìo del vento. Tutto questo per costruire un film in grado di intromettersi e sprofondare nel tema della malattia mentale, della complessità della mente umana, così da far emergere la relatività della pazzia e del concetto di bene contro male. E l’aspetto più rilevante e inquietante è che Kurosawa riesce a spaventare restando quasi fermo, immobile con i suoi silenzi e le parole trattenute perché Cure riesce a spingere lo spettatore a compiere il proprio viaggio verso le porte della mente che non vuole aprire, verso i segreti più reconditi e nascosti.
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