ROMA – Chi era Shinji Somai? Uno dei più importanti registi giapponesi del Novecento e quasi nessuno lo sa, non solo perché è scomparso prematuramente a 53 anni, non solo perché le sue opere non sono mai state distribuite in maniera capillare nel resto dell’Asia e in Occidente, ma soprattutto perché Somai è stato uno di quei creativi arrivati troppo presto e che, in silenzio, con una visione innovativa e inesplorata, hanno mostrato una via sconosciuta e influenzato le generazioni successivi di artisti. Alcuni dei migliori registi giapponesi del nuovo millennio (Kore-Eda e Ryusuke Hamaguchi) e persino lo Studio Ghibli hanno assorbito l’estetica e lo storytelling visivo di un regista che in vent’anni ha girato tredici film capaci di racchiudere insieme una precisa evoluzione formale che dal rivoluzionario e carnale Typhoon Club del 1985 arriva all’incredibile viaggio di formazione Moving del 1993, che il Far East Film Festival ha deciso di proiettare in versione restaurata.

Moving, presentato a Cannes 46 nella sezione Un Certain Regard, racchiude dentro di sé una potente contemporaneità nei temi e nel modo di mostrarli perché oggi nel cinema giapponese le relazioni familiari, i contrasti adolescenziali e il classico viaggio dell’eroina miyazakiana sono concetti centrali attorno a cui ruotano i lungometraggi. E Moving aveva già tutto questo. Su una semplice storia familiare – marito e moglie decidono di divorziare e la figlia undicenne non riesce ad accettare che il nucleo familiare venga distrutto – Somai costruisce un viaggio che non si limita a mostrare come Renko provi a riconciliare i genitori, ma un percorso formativo che evade dalla realtà e si trasforma in una rinascita allegorica e mistica. Il triangolo familiare (come il tavolo su cui ogni sera mangiano) delinea perfettamente le fragilità umane dell’adulto e l’innocenza priva di esperienza della bambina.

Somai decide di disegnare Renko come un personaggio atipico e fuori dagli schemi, una bambina scaltra, furba, intelligente, che quasi sovrasta una madre e un padre che, stanchi di una quotidianità in cui si sentono annegare, regrediscono a uno stato fantasmatico e che li avvicina tremendamente all’essere degli adolescenti persi. Renko però si deve scontrare con la realtà, con un amore che ha smarrito la scintilla, e nella rincorsa a ripristinare uno status quo ormai perso deve confrontarsi con un lato della vita ancora inesplorato che la porterà a compiere un viaggio solitario all’interno del proprio animo. La seconda metà di Moving, infatti, si sposta dal reale e trasmigra in una dimensione dove Renko, da sola, dovrà affrontare il trauma, guardarlo con distacco e uscirne diversa (stesso procedimento narrativo dei film dello Studio Ghibli e soprattutto di Miyazaki).

E Somai lo mostra non staccando mai durante il ritmo della scena, architettando così lunghi piani sequenza che si trasformano in fluidi quadri che donano spazio e aria e respiro a un lungometraggio che riesce a cogliere sfumature mai affrontate sulla separazione e sulla crescita. Moving, per innovazione e prospettiva, è un fondamento chiave della cinematografia orientale e Somai vive ancora dentro la delicatezza di Kore-Eda e il ritmo lento e fluviale di Hamaguchi, la più limpida dimostrazione che anche a più di vent’anni la propria scia nel mondo può ancora essere visibile e tangibile.
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- VIDEO | Qui per il trailer di Moving:
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