MILANO – Con l’arrivo di Air – La storia del grande salto al cinema è chiaro una volta per tutte che Ben Affleck meriti finalmente un riconoscimento che vada oltre i premi conquistati in carriera (due Oscar, per Will Hunting e per Argo), perché qui ci troviamo davanti ad un film capace di non essere convenzionale pur rimanendo saldo all’interno delle rigide regole del genere biopic. Questo grazie ad una sceneggiatura che non perde un colpo e mantiene un ritmo saldo, accompagnata da una regia intelligente che si allontana dagli stilemi regolari, come può capitare spesso in questi casi. Il film racconta un momento non convenzionale nella storia della Nike, il 1984, quando si decise di scommettere tutto per ingaggiare Michael Jordan – ancora poco noto – costruendo attorno a lui le celebri scarpe che avrebbero costituito il punto di lancio definitivo per il successo del brand.

Qui Affleck, anche nei panni del CEO della Nike Phil Knight, ritrova il vecchio compare Matt Damon (nel film è Sonny Vaccaro, il manager della Nike) ventisei anni dopo l’Oscar vinto con Will Hunting. Un’intuizione che regala ad Air anche il sapore di una rimpatriata perché uno dei (molti) punti forti del biopic sta proprio nel fatto che Ben Affleck si sia circondato di amici e attori fuori da alcuni canoni tradizionali per raccontare la storia: ci sono anche Chris Tucker e Marlon Wayans, rispettivamente Howard White, un collega di Sonny, e George Raveling, l’allenatore di Jordan alle Olimpiadi del 1984. Ma ecco anche Jason Bateman, Chris Messina e Viola Davis (che da sola vale il biglietto, come sempre) che interpreta Deloris Jordan, madre del fuoriclasse. Ad ognuno viene dato il giusto spazio ritagliando momenti – anche brevi – che delineano tutte le figure che hanno preso parte a quella che fu – a tutti gli effetti – una rivoluzione per il marketing sportivo.

Il cast funziona però anche – e soprattutto – per merito della straordinaria sceneggiatura (d’esordio!) di Alex Convery, autore classe 1975 che prima di cimentarsi in questo film si considerava semplicemente un grande fan dei Chicago Bulls. Per la storia ha preso ispirazione dal magnifico documentario su Jordan, The Last Dance (ve lo avevamo raccontato qui) e in particolare da una sequenza precisa, ovvero un episodio in cui si vedeva lo stesso Jordan titubante e non molto propenso a firmare un accordo con la Nike. L’altro grande punto di forza di Air? Sta nel non averlo fatto diventare un film su Jordan (quando compare c’è una chiara dichiarazione di intenti nel non mostrarlo mai in volto, fatta eccezione per i filmati d’archivio), ma concentrandosi su tutte le figure di contorno, in particolare quelle di Sonny e di Deloris.

E allora, proprio come su un campo da basket, Air non perde mai ritmo, non perde mai un rimbalzo, le parole hanno il loro peso e la loro velocità, scritte in sequenza, rapide, quasi come se questo fosse il The Social Network delle sneakers, quasi come se Convery avesse studiato da Aaron Sorkin. Non scade mai in scelte ingenue o battute banali e fa emergere al momento giusto anche tutta la bravura e lo stoicismo del volto di una delle migliori attrici degli ultimi trent’anni, Viola Davis, una magnifica Deloris Jordan. Insomma, dopo il sonoro flop de La legge della notte, diamo a Ben Affleck quello che è di Ben Affleck, al riparo da gossip e sciocchezze varie, tra J.Lo e meme da socal. Si è rimboccato le maniche per ritornare alla sua dimensione ideale del racconto, quella in cui andare tra le pieghe di una storia per rendere ancora più grande e forte la realtà. Imperdibile.
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