MILANO – Partiamo con una domanda: ma cos’è esattamente il raggio verde? È l’ultimo sospiro del sole che tramonta sul mare, emesso dalla luce solare mediante il fenomeno ottico della rifrazione, la cui visione, romanticamente, permette di leggere nei propri sentimenti e in quelli altrui. Ma, quel fenomeno naturale, è anche un film, Leone d’Oro alla Mostra di Venezia nel lontano 1986: si chiama Il Raggio Verde e trae diretta ispirazione dall’omonimo romanzo firmato da Jules Verne del 1882. Quinto capitolo del ciclo di sei film diretto da Éric Rohmer – denominato Commedie e Proverbi – rivista oggi quell’opera sembra davvero catturare la quotidianità in ogni sua diramazione, evitando scientemente di manipolare il film con la bellezza artificiale della finzione.

Ma andiamo con ordine: chi è Delphine (Marie Rivière)? Segretaria in un ufficio di Parigi, intrappolata in un’esistenza infelice, vaga priva di una meta tra una destinazione e l’altra, senza riuscire a trovare il proprio equilibrio esistenziale. Rohmer scandaglia con lucidità la sua solitudine, il senso di smarrimento dinanzi alla realtà e al vuoto di un individuo incapace di sentirsi compreso. Scritta dal regista in collaborazione proprio con la Rivière, la sceneggiatura lascia ampi spazi all’improvvisazione degli attori, tanto che la protagonista dichiarò di aver avuto la totale libertà di esprimersi, facendo largo utilizzo di espressioni personali, affatto non in linea con il canovaccio prestabilito.

Ma cosa colpisce a più a quasi quarant’anni di distanza de Il Raggio Verde? La natura quasi amatoriale delle riprese, con le fotografia a tinte scolorite e le inquadrature a mano, capaci di conferire all’opera la struttura di un diario scandito giorno per giorno (da lunedì 2 luglio a sabato 4 agosto). Delphine sceglie di vivere «seguendo un ideale, anziché adattandosi ad una mediocre realtà» perdendo così ogni speranza. Poi l’incontro con una ragazza svedese, disinibita e risoluta, che proverà a riaccendere l’erotismo e la curiosità di Delphine, depressa per la fine della relazione con Jean-Pierre.

Il lascito di Rohmer nel cinema di oggi è evidente in autori contemporanei come Abdellatif Kechiche – impossibile non pensare a Mektoub my Love: Canto Uno, ve lo avevamo raccontato in French Touch – e continua ad esercitare grande fascino persino agli occhi di uno spettatore odierno, contaminato da ben altre visioni. E ciò che più funziona nel metodo indagatore rohmeriano è la sensibilità con cui mette in scena i propri personaggi, la leggiadria con cui i sentimenti si librano nell’aria, verso l’orizzonte in cui il sole cala al tramonto. Minimalista, fragile, ai limiti del cinéma vérité, un autentico gioiello del cinema francese. Da recuperare, assolutamente.
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