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Tra l’America e il futuro. Donald Glover e tutto quello che rimane di Atlanta

L’inizio. Il successo. I premi. L’eredità televisiva e la politica. Ma cosa rimane dopo quattro stagioni?

Atlanta
Donald Glover e la banda di Atlanta.

MILANO – Nell’agosto del 2013, Donald Glover pubblicò il cortometraggio Clapping for the Wrong Reasons, diretto da Hiro Murai. Sebbene facesse parte della promozione per Because the Internet, album del suo alter ego musicale Childish Gambino, dentro c’era già tutta la serie Atlanta: i silenzi, quelli bizzarri e quelli ponderati che assumono significato solo alla fine; la musica. Un mese prima del corto, Glover infatti aveva già firmato con FX per la serie, con cui avrebbe collaborato di nuovo con Murai. Tre anni dopo, arrivò la prima stagione. Spinta anche dal successo del successivo album di Childish Gambino, Awaken, My Love!, la serie conquistò critica e pubblico, macinando successo e premi su premi con due Golden Globe e due Emmy vinti.

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L’inizio di tutto: era il 6 settembre 2016.

Sei anni dopo, una pandemia di mezzo e due stagioni back-to-back, Atlanta si è conclusa con la consapevolezza che rimarrà unica nel suo genere. Ma adesso che è finita? Prima di parlare del futuro, facciamo un altro piccolo passo indietro e parliamo della genesi di Atlanta. A margine della promozione della prima stagione, Donald Glover descrisse così la serie: «I just always wanted to make Twin Peaks with rappers». Al di là dell’ironia della battuta, in Atlanta è possibile ritrovare le stesse componenti oniriche e surreali che hanno fatto grande la serie di David Lynch. In questo modo il genere della commedia – la categoria di cui la serie di Glover dovrebbe far teoricamente parte – viene completamente ribaltato. Stravolto.

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«Twin Peaks con i rapper?». Più o meno…

Come per tutti i suoi lavori, la musica è il filo conduttore: Donald Glover lasciò la serie Community per intraprendere la carriera da rapper. Non gli è andata di certo male. In questo fil rouge multimediale, musica e immagini non possono vivere separati, perché insieme hanno una potenza visiva che lascia molto poco all’immaginazione.  Se vi è capitato di spulciare negli ultimi anni quei classificoni sulle migliori serie televisive di sempre che sono tipiche di testate come TIME e Rolling Stone, avrete notato come Atlanta è sempre tra le prime 10 posizioni. È strano quindi spesso ritrovarla anche tra le prime cinque, a fianco di titoli come Mad Men, i Soprano e Breaking Bad: serie che hanno una trama e uno sviluppo preciso, e che rientrano in una definizione precisa di “genere”.

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Quando l’attualità entra nella serie.

Atlanta un’orizzontalità non ce l’ha mai avuta, né tantomeno l’hai mai cercata. È sempre stata una serie episodica, spesso con storie uniche confinate nelle singole puntate. Ovviamente partiva da un presupposto: Earn (Donald Glover) torna ad Atlanta, sua città natale, dopo una fallimentare carriera universitaria a Princeton. Nella ricerca di redenzione davanti agli occhi dei soi genitori, della sua ex fidanzata Vanessa (Zazie Beetz), nonché madre di sua figlia Lottie, e di suo cugino Alfred (Bryan Tyree Henry), sembra trovare l’occasione adatta quando quest’ultimo inizia ad acquistare popolarità come rapper nei sobborghi della città, con il nome ‘Paper Boi’, e decide di fargli da manager con l’amico Darius (Lakeith Stanfield).

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I magnifici quattro nella terza stagione.

Le serie sopracitate con cui si confronta Atlanta giocano molto sul ruolo dell’antieroe, e in teoria anche Earn lo sarebbe, non fosse che sembra non volere nulla dalla sua vita e pare non faccia nulla per darle una svolta. Un po’ come Childish Gambino, che dopo aver guadagnato la fama, sembra non volere averci niente a che fare. Qualche anno fa annunciò il ritiro dalle scene, in quanto riteneva la sua carriera da rapper non più necessaria. L’incipit della serie di Glover, così come la musica e queste sue prese di posizione, rimarranno solo un pretesto con il quale Glover e soci raccontano quel fiorente ‘sottobosco’ del microcosmo culturale che è Atlanta, che più che essere concretamente un ambiente metropolitano, è il simbolo di uno spaccato culturale volto a spiegarne uno più grande.

Glover con una delle rivelazioni di Atlanta: Zazie Beetz

Il macrocosmo che vogliono raccontare è quello di una nazione, gli Stati Uniti, divisi in due sotto qualsiasi aspetto. Lo aveva già fatto nei panni di Childish Gambino col suo singolo di maggior successo This Is America. E come nel famigerato video, così Altanta si muove in equilibro tra tragicomico e surreale, a volte in maniere più bizzarre del solito: contrappone l’humour e l’entertainment alla violenza e alle realtà violente, così come Childish Gambino nella canzone è sia intrattenitore che carnefice. L’attenzione nel videoclip è sui balli, mentre sullo sfondo si consuma la tragedia di una guerriglia urbana poco fittizia e molto reale, che richiama i più recenti e terribili mass shooting della storia degli Stati Uniti, passando per il concreto problema del razzismo sistemico. La situazione surreale aiuta il pubblico a concentrarsi su ogni dettaglio delle scene che sta guardando, spingendolo a riesaminare qualsiasi situazione che all’inizio potesse sembrare “normale”, e quindi alla fine costringendoli a fare i conti con i problemi di una determinata realtà sociale.

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Lezioni di blackness, tra critica e autocritica.

Nella serie i personaggi stessi talvolta riconoscono l’assurdità di alcune situazioni che gli si presentano agli occhi, ma non reagiscono. Proprio come avviene nel tessuto sociale di quella che si considera la più grande nazione al mondo. Atlanta è come un racconto di due città. La più piccola – quella vera, ma anche quella metanarrativa – confina i nostri protagonisti (fatta eccezione per la parentesi europea della terza stagione) ad un “non-sviluppo”, uno spazio vuoto in cui la narrazione non prosegue. Il risultato, nei confronti del classico storytelling a cui siamo abituati, è distruttivo e ne scardina le regole. L’altra “città” è quella più grande, quella dove la critica sociale è protagonista: qui Glover impartisce lezioni di blackness in maniera ambivalente; è sia critica che autocritica, contro la nazione ma anche contro la stessa comunità che pare annebbiata dagli stessi valori consumistici che cercano di combattere.

L’entrata nell’immaginario collettivo con le magliette.

Ma adesso che dopo quattro stagioni la serie è finita, cosa rimane di questi insegnamenti? Donald Glover non si è mai fatto carico di alcune responsabilità e anche se spesso ha parlato di Atlanta come di uno strumento per “spiegare la cultura dei neri ai bianchi”, sta al pubblico decidere cosa fare delle sue lezioni. Come scrivono David Foster Wallace e Mark Costello in Il rap spiegato ai bianchi: «Il rap è qualunque cosa vogliate che sia, basta che lo vogliate». Così Atlanta può essere tutto ciò che volete, ma una cosa è certa: non ci sarà più un’altra città e un altro racconto del genere.

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