MILANO – Una sala interrogatori, una stanza per osservare e un corridoio con un distributore automatico che offre pessimo caffè. Criminal, la serie antologica Netflix creata da George Kay e Jim Field Smith, è ambientata tutta in questi tre spazi. Ma non è la sua unica particolarità. I dodici episodi che la compongono si dividono tra Inghilterra, Spagna, Francia e Germania. Per ogni puntata un sospettato diverso interrogato da un team che cambia in base al Paese.

L’ennesima variazione di un genere, quello crime/procedurale, che non conosce crisi. Da Law & Order a True Detective, da Broadchurch a The Killing, passando per Mindhunter o Line of Duty, è innegabile la sua evoluzione e varietà di sfumature che spaziano da atmosfere thriller a psicologiche. E Criminal s’inserisce all’interno di questo processo di evoluzione mostrando i suoi elementi di novità ma, al tempo stesso, i suoi limiti.

Perché se è vero che l’intuizione di creare una serie con elementi fissi da declinare alle particolarità dei luoghi in cui sono ambientate è vincente – dal Muro di Berlino alla strage del Bataclan – è altrettanto vero che la sua stessa ossatura rischia di farla ripiegare su se stessa. Pensata per poter essere vista senza alcun ordine preciso da seguire in virtù della sua natura autoconclusiva, Criminal, però, non si presta al binge watching tipico di Netflix.

Perché? Se ogni episodio è a se stante – l’unico elemento ad evolversi è la relazione tra i poliziotti – la sua struttura narrativa tende a replicarsi. Sceneggiatura, montaggio e interpretazioni. I tre pilastri su cui si basa la serie tra i cui interpreti annovera David Tennant e Hayley Atwell e che, grazie al suo unico set e il duetto tra detective e sospettati, ha un eco teatrale presente in ogni episodio. Un esperimento difettoso quanto doppiamente affascinante per la natura produttiva e narrativa.
- Qui potete vedere il trailer di Criminal:
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