Recensione Dickens- L’uomo che inventò il Natale

Nel 1843 la vita di Charles Dickens è ad un bivio. Sono passati nove anni dalla sua ascesa nel mondo degli scrittori di successo -iniziato con la pubblicazione del racconto a puntate Il circolo Pickwick– e sei dalla straordinaria fama che gli diede il capolavoro Oliver Twist, un libro che riuscì incredibilmente a unire, per lo meno sul piano del giudizio estetico, la neo-Regina Vittoria e gli operai di tutta Londra.

 

I grandi fasti e i successi sfociati nei tour negli Stati Uniti per le letture pubbliche del suo romanzo, però, sono ormai solo un ricordo, perché il povero Charles, dopo tre opere di scarsa fortuna commerciale, sta vivendo un periodo di crisi artistica (qualcosa di simile al famigerato ‘blocco dello scrittore’); ora il narratore più famoso d’inghilterra, lo scrittore degli orfani, delle prostitute e dei lavoratori comincia ad avere difficoltà nel trovare un editore che lo supporti, vive sul filo di lana e si affida a prestiti per riuscire a mantenere se stesso e la sua famiglia in quello stile di vita altoborghese che si era guadagnato scrivendo.

Basandosi su una sceneggiatura tratta dall’omonimo libro di Les Standiford, il regista Bharat Nalluri parte da queste premesse per raccontarci in quale modo, tra l’ottobre e il dicembre del 1843, Dickens riuscì a comporre -in sole sei settimane- uno dei libri più venduti e apprezzati nella storia della letteratura, quello che ha condizionato per sempre il modo di vivere il Natale nella cività occidentale: Canto di Natale (A Christmas Carol, nell’originale inglese).

 

Sia chiaro, il film è ben lontano dall’essere una ricostruzione filologica della genesi dell’opera di Dickens, si comporta piuttosto come una sorta di commedia favolesca sul tema del riscatto e  intrisa di quei sentimenti tradizionalmente legati al Natale, in cui la vita privata dello scrittore e i suoi fantasmi si intrecciano -attraverso un meccanismo di associazione simile a quello nel finale de I soliti sospetti–  con un racconto che giorno dopo giorno si svela nella mente del genio. Assistiamo quindi ad apparizioni mistiche di personaggi, dialoghi, siparietti e introspezioni tra questi e l’autore, un Dickens giovane e disperato nella ricerca di un intreccio che riesca a stuzzicare la fantasia del suo potenziale pubblico, senza per questo rinunciare, come è nelle sue corde, a far emergere le differenze sociali insite nell’Età Vittoriana e in quel nuovo mondo industrializzato e contraddittorio di cui vuol farsi cantore.

 

I colori accesi e il tono leggero tipico della commedia inglese non servono a nascondere i bassifondi londinesi o i topi di fogna che si aggirano tra le scrivanie operaie delle fabbriche, si inseriscono piuttosto nell’atmosfera che lo stesso Dickens aveva voluto per il suo racconto, ovvero un mondo immaginario in cui i bambini poveri (come del resto era stato lui stesso nella sua infanzia) non muoiono abbandonati a se stessi, ma vengono salvati dalla redenzione dei cattivi, di quelli che nella vita reale sarebbero i loro carnefici. Da questo punto di vista il film funziona, anche se i momenti di maggior interesse restano quelli surreali e onirici, rispetto ai passaggi in cui si vorrebbero far trapassare i valori morali a cui aspira l’originale Canto di Natale anche all’interno della vita e dei rapporti umani dello stesso scrittore.

 

La regia è pulita e la scelta di un regista che arriva dal mondo delle serie televisive sembra funzionale, così come lo è la scelta di un ottimo Christopher Plummer per il ruolo del cinico e avaro Scrooge.

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