Recensione A Taxi Driver – Taeksi Woonjunsa

Siamo a Seul, anno 1980, e per il mite tassista Kim la situazione non è buona: è vedovo, ha una figlia a carico e deve al padrone di casa la considerevole somma di 100000 won. Il nostro è un gran lavoratore, ma passeggeri insolventi e manifestazioni contro il governo gli impediscono fisicamente di fare cassa. Nel momento di massimo sconforto, tuttavia, arriva la grande occasione: un turista straniero offre esattamente quella somma per una gita in giornata nella città di Gwangju. Kim ne approfitta con entusiasmo, ma trascura due particolari di fondamentale importanza: il turista è un reporter di guerra, e a Gwangju l’esercito sta massacrando i civili in seguito a un colpo di stato.

L’approccio iniziale di Hun Jang lascia presagire una classica commedia on the road in cui la piccola, minuscola storia di Kim e del suo malridotto taxi confluirà brevemente nella triste Storia nazionale: rideremo dell’occidentale che non sa usare le bacchette e dell’asiatico che finge di sapere l’inglese, aspetteremo che i due rompano il ghiaccio e, dopo qualche spassosa peripezia e un breve momento di riflessione, constateremo con gioia che sono diventati amiconi. Ecco, no. Niente di più sbagliato: dall’entrata a Gwangju, dove registriamo l’ultimo espediente comico, il cambio di registro è tangibile e Taeksi Woonjunsa si fa thriller, dramma storico, spy story, action e splatter, senza trascurare una patina grottesca che ci accompagna in ognuno di questi sottogeneri.

A Taxi Driver è un film eccessivo in ogni sua declinazione: nell’esasperata gestualità del navigatissimo Kang Ho Song, nell’espressione compiaciuta del poliziotto cattivone che si aggiusta il ciuffo, nella scena in cui una dozzina di SWAT, addestrati a centrare sagome piazzate su Urano e spalmati su quattro jeep col motore di un boeing, si lasciano scappare un taxi del 1947 col serbatoio bucato e la frizione che gratta. Eppure, considerati alcuni fattori extracinemici, ci sentiamo di essere indulgenti: in Corea del Sud non si è mai parlato volentieri dei fatti di Gwangju, trascurati anche da un occidente concentrato sull’altra Corea, e solo oggi si inizia a fare i conti col passato recente (il che, tra le altre cose, farà di Hun Jang e associati i candidati nazionali all’Oscar per il miglior film in lingua straniera. Bene così). Come accadde col nostro Diaz di Daniele Vicari, insomma, non è il caso di dare spazio a sfumature e zone grigie.

Apprendiamo con rammarico che l’eroico Juergen Hitzpeter, che grazie a Kim fu l’unico straniero ad accedere alla zona rossa e documentare la strage, è scomparso nel 2016. Oggi riposa a Gwangju.

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