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The Brutalist | Adrien Brody, Brady Corbet e la fine del Sogno Americano

Met Breuer, l’architettura brutalista, la regia, il potere e le riflessioni di un’opera straordinaria

Adrien Brody in una scena di The Brutalist: Il capolavoro di Brady Corbet
Adrien Brody in una scena di The Brutalist: Il capolavoro di Brady Corbet

ROMA – Quella di The Brutalist è la storia di László Tóth (Adrien Brody), architetto della Bauhaus scampato a Buchenwald ed emigrato dall’Ungheria nel Secondo Dopoguerra negli Stati Uniti nel 1947. Costretto dapprima a lavorare duramente e vivere in povertà – e in attesa che la moglie Erzsébet (Felicity Jones) ottenga il visto per raggiungerlo – si cimenta in piccoli progetti di design e ristrutturazioni d’interni con il cugino Attila (Alessandro Nivola) che lo ospita. Progetti in cui László porta in arte tutto il suo bagaglio di conoscenze e della sensibilità brutalista appresa durante la prigionia. Un giorno irrompono nella sua vita il magnate Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce) con il figlio Harry (Joe Alwyn) e la sorella Maggie (Stacy Martin) che rimangono stregati dal suo immenso talento. E da quel momento tutto cambia, perché è alto il prezzo da pagare per potere ed eredità.

Adrien Brody e Felicity Jones in una scena del film
Adrien Brody e Felicity Jones in una scena del film

Presentato in anteprima mondiale in concorso a Venezia 81 dove il film è stato insignito del Leone d’argento, protagonista ai Golden Globes 2025 (Miglior attore in un film drammatico, Miglior regia) – e candidato di peso agli Oscar 2025 con 10 nomination (tra cui Miglior film, Miglior regia e Miglior attore protagonista) – ecco finalmente The Brutalist di Brady Corbet anche nelle sale italiane con Universal Pictures. Un film attesissimo, agognato, rincorso, da spettatori e addetti ai lavori come dallo stesso Corbet, che ne edifica la produzione assieme alla produttrice e co-sceneggiatrice Mona Fastvold sin dal 2018 – ovvero all’indomani di Vox Lux – e descritto a larghe linee come: «Un film che celebra i trionfi dei visionari più audaci e compiuti: I nostri antenati». Più nello specifico gli immigrati, i rifugiati politici. Chi ha avuto il coraggio di attraversare un continente per realizzare i propri sogni.

I titoli di testa di The Brutalist
I titoli di testa di The Brutalist

«The Brutalist esamina come l’esperienza dell’immigrato rispecchi quella artistica, nel senso che ogni volta che si realizza qualcosa di ardito, audace o nuovo, come l’istituto che László costruisce nel corso del film, si viene generalmente criticati per questo, e poi nel tempo è stato celebrato e osannato per questo». Nella fattispecie della suggestione filmica verosimigliante di Corbet, quella di László Tóth, architetto ungherese brutalista i cui contorni caratteriali sono disegnati su quelli di Louis Kahn, Mies van der Rohe e, soprattutto, l’ungherese Marcel Breuer, che progettò il Whitney Museum di New York City, ora Met Breuer: «La verità è che la maggior parte degli architetti ebrei dell’Europa orientale o centrale rimasti bloccati in Europa durante la guerra non ne uscirono vivi. Nel caso di Breuer, era un accademico molto stimato che fu invitato a lavorare con Walter Gropius in America nel 1937».

Guy Pearce e Joe Alwyn in una scena di The Brutalist
Guy Pearce e Joe Alwyn in una scena di The Brutalist

Di Breuer, in particolare, Corbet e Fastvold rimasero affascinati dal rapporto che aveva con la moglie – che su ammissione della co-sceneggiatrice è la base del cuore narrativo di The Brutalist – ma soprattutto del rapporto instabile con la critica: «Nell’ultima parte della sua vita, Breuer non era un architetto particolarmente celebrato. Ora è considerato uno dei migliori architetti del XX secolo». Esattamente come accade con László nell’atto conclusivo del film dove, in un atto di arte che imita la vita, la prima Esposizione Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia del 1980 si chiamava La presenza del passato. Espressione di cui Corbet si serve come titolo evocativo (ed esplicativo nda) della retrospettiva che celebra la carriera di László Toth come architetto brutalista – e con essa l’immortalità artistica che ne deriva – che è la riscossa dell’arte là dove gli eventi della vita avevano provato a dire no.

The Brutalist, il capolavoro di Brady Corbet, dal 6 febbraio al cinema con Universal Pictures
The Brutalist, il capolavoro di Brady Corbet, dal 6 febbraio al cinema con Universal Pictures

«Non importa cosa gli altri provino a venderti, ciò che conta è la destinazione, non il viaggio» dice l’ultima linea dialogica di The Brutalist e con essa il fallimento del Sogno Americano di cui Corbet ne racconta nei termini di un’America terra marcia e tossica popolata di prostitute e arrivisti, aguzzini e gente che ripudia le proprie origini (evidente il dislivello caratteriale tra László e il cugino Attila nda). Ma soprattutto di oligarchi megalomani e rabbiosi – brutali nei modi, nell’animo e nella gestione del potere – che si servono degli uomini di talento trattandoli come fossero cani malati da abbattere. Eppure nonostante tutto non è un film dichiaratamente politico quello di Corbet: «The Brutalist è un film storico e i personaggi sono scritti in base alle loro circostanze» dice il regista, perché è la storia – e nello specifico il Secondo Dopoguerra – il centro focale del racconto.

Adrien Brody in una scena di The Brutalist
Adrien Brody in una scena di The Brutalist

Ci diventa, però, politico – impegnato – perché: «Il film ha molto da dire sull’esperienza degli immigrati in America e su come il Sogno Americano deluda László ed Erzsébet Toth» e con loro l’incapacità – o forse sarebbe meglio dire impossibilità – ad integrarsi se non si riesce a essere fino in fondo padroni del proprio destino nel compiere le scelte giuste. Se non si viene accolti come dovrebbe accadere sempre. Se la fiducia diventa tolleranza. La forza narrativa di The Brutalist, però, sta in come l’anima politica e sociale del racconto – universale e tristemente senza tempo – va a districarsi nella componente storica: «Il Secondo Dopoguerra è un periodo che mi ha sempre affascinato, principalmente per il modo in cui la psicologia del Dopoguerra ha avuto questa straordinaria impronta e influenza sull’architettura del Dopoguerra» dice Corbet e con quella del movimento architettonico del brutalismo in particolare.

Alessandro Nivola e Adrien Brody in un momento del film
Alessandro Nivola e Adrien Brody in un momento del film

Nata all’inizio degli anni Cinquanta, l’architettura brutalista si impose nei progetti di ricostruzione del Secondo Dopoguerra attraverso costruzioni minimaliste che mettono in risalto e in mostra elementi spogli come cemento o mattoni a vista. Il brutalismo enfatizza le componenti strutturali anzichè il design decorativo, ma ciò che ha sedotto Corbet e Fastvold del brutalismo al punto da farci un film, è la sua risonanza fisica e psicologica: «Abbiamo trovato poetico che i materiali sviluppati per la vita durante la guerra siano stati poi incorporati in residenze e progetti aziendali negli anni Cinquanta e Sessanta da artisti del calibro di Marcel Breuer e Le Corbusier. Riteniamo, infatti, che psicologia e architettura di quel periodo siano collegate. Qualcosa che portiamo in vita nel film attraverso la costruzione dell’Istituto, una manifestazione di trent’anni di trauma in László Toth e la ramificazione di due guerre mondiali».

Un momento del film
Un momento del film

E con esso il suo cuore filmico: «L’intero film riguarda l’interiorità dei miei personaggi, che si manifesta negli spazi che László crea nel film e negli spazi in cui abita. Riflette anche la rapacità di Van Buren» e che si riflette in un’opera, The Brutalist, che ragiona per spazi nella sua regia geometrica dove l’architettura diventa funzionale nella loro confezione e nell’uso delle luci naturali e che vive in immagini chiaroscurali custodi al loro interno di un inamovibile nucleo. Un nocciolo di bellezza senza parti superflue che cresce in un andamento reso armonia poetica nella sua scansione temporale dal montaggio morbido. Nonostante la sua prolissità e la sua durata decisamente proibitiva, infatti, è un film lucido quello di Corbet: senza fronzoli, diretto, deciso, dove ogni movimento di macchina è ragionato ma spontaneo nella sua esecuzione, e dove non c’è spazio per il superfluo.

Adrien Brody in un momento (bello) del film
Adrien Brody in un momento (bello) del film

La stessa scelta narrativa dell’overture e dell’intermezzo di quindici minuti tra i due atti, ad esempio, va di pari passo con l’utilizzo del formato widescreen della VistaVision. Elementi funzionali anche all’estetica del film: «Sembrava semplicemente che il modo migliore per accedere a quel periodo storico fosse girare su qualcosa che era stato progettato nello stesso decennio». The Brutalist è, infatti, il primo film in sessantuno anni di Hollywood ad essere interamente girato in questo formato. Prima della maestosa epica (anti)americana di Corbet bisogna tornare indietro a I miei sei amori, film musicale del 1963 di Gower Champion con Debbie Reynolds e Cliff Robertson. E basterebbe solo questo per accendere la curiosità dei cinefili più agguerriti. Le interpretazioni allo stato dell’arte di Brody e Pearce non sono che la ciliegina sulla torta. Quello di Brady Corbet è puro e magnifico cinema: Visionario, folle, e bello da morire. Da non perdere!

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