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Rupert Everett: «Il mio Oscar Wilde? Non un’icona, ma una figura tormentata e attuale»

Omofobia, amore e Luchino Visconti: l’attore inglese racconta il suo poetico The Happy Prince

Rupert Everett nei panni di Oscar Wilde in una pausa sul set di The Happy Prince

«Alta sulla città, in cima a una colonna, stava la statua del Principe Felice. Era tutta ricoperta di sottile foglia d’oro zecchino, e per occhi aveva due lucenti zaffiri […]». Come la statua che dà il nome alla raccolta di fiabe, Il principe felice, anche Oscar Wilde è stato distrutto e deriso da chi lo ammirava. Rupert Everett esordisce alla regia con The Happy Prince – in anteprima su CHILI – dedicando proprio allo scrittore un ritratto malinconico dei suoi ultimi anni di vita. Come in un sogno, il film ripercorre così i tormenti della prigionia, la relazione con Lord Alfred Douglas (Colin Morgan), i sensi di colpa per il dolore causato alla moglie e l’affetto che lo legò a Robbie Ross (Edwin Thomas). Una storia, quella del drammaturgo condannato ai lavori forzati per la sua omosessualità, ancora attuale, come ha sottolineato lo stesso Everett a Hot Corn.

Everett in un altro momento di The Happy Prince.

LA SCENEGGIATURA «L’ho scritta dieci anni fa ma ci è voluto altrettanto per trovare i soldi. Mi sono concentrato sugli ultimi anni di vita di Oscar Wilde. Trovo la sua una delle storie più romantiche del XIX secolo, ma non volevo trasformarlo in un’icona come hanno fatto in altri film su di lui, rendendolo monodimensionale e arido. Volevo renderlo umano, un vagabondo della letteratura che, come Paul Verlaine, fu ostracizzato dalla società. Due geni trasformati in relitti che vanno alla ricerca di qualcuno che gli offra da bere lungo i boulevard».

L’ISPIRAZIONE «Quando lavori nel mondo del cinema, aggressivamente eterosessuale per tanto tempo, se sei gay devi negoziare e – prima o poi – finisci per scontrarti contro un muro. Forse oggi non è più così, ma negli anni ’80 e ’90 non era facile. Oscar Wilde per me è stato sempre un’enorme fonte di ispirazione. Da ragazzo, negli anni ’70, vivevo a Londra e l’omosessualità era stata legalizzata solo un paio di anni prima. Con il film mi è sembrato di ripercorrere le sue orme».

Colin Morgan e Rupert Everett tra i vicoli di Napoli in una scena di The Happy Prince.

LA DISTRUZIONE «Lo scandalo? Da un punto di vista politico credo Wilde se lo sia tirato addosso da solo. È stato lui a portare in tribunale Lord Queensberry. Penso lo fece perché, essendo arrivato all’apice della fama, non aveva più consapevolezza di quello che fosse il mondo. La distruzione se l’è autoinflitta. Ha flirtato con la Chiesa tutta la vita. Nessuno sa perché non sia scappato per evitare i lavori forzati. Forse ha visto un’opportunità nell’andare in prigione. Se si fosse sacrificato, sarebbe potuto rinascere. Come Gesù».

LE INFLUENZE «La serie di scatti di Brassaï che ritraggono Parigi avvolta in una sorta di nebbia mi è serviva per camuffare le caratteristiche fiamminghe e tedesche delle ambientazioni, dato che abbiamo girato in Belgio e Germania. Toulouse-Lautrec e Claude Monet, insieme ai pittori del nord della Francia, invece, sono le maggiori ispirazioni pittoriche. Nel film ci sono anche molti sipari che si aprono. D’altronde Wilde era un personaggio fortemente teatrale…».

Una scena di The Happy Prince che ricorda La colazione dei canottieri di Auguste Renoir

I DARDENNE «Volevo che The Happy Prince fosse un mix tra Luchino Visconti e le riprese fatte con le camere a circuito chiuso. Qualcosa di progettato e costruito, ma con lo stile della camera a spalla, naturalistico. Un esempio? Adoro i film dei fratelli Dardenne, perché usano un trucchetto: fanno in modo che i personaggi guardino in camera, stabilendo così un contatto, per poi essere ripresi di spalle. Una scelta realistica. Desideravo quel tipo di combinazione».

L’ATTUALITÀ «La storia di un uomo, distrutto perché omosessuale, è attuale. Oggi accade in Cina, Russia, India, Giamaica, ma la cosa più grave è che con l’avvento dell’UPIK in Gran Bretagna o della Lega in Italia, l’atteggiamento omofobo sta diventando sempre più diffuso. Adolescenti che si suicidano o città come Genova che non sostengono più il Gay Pride sono atti importanti ai quali bisogna prestare attenzione. Dobbiamo essere vigilanti e attivi».

Björn Andrésen e Dirk Bogarde in Morte a Venezia di Luchino Visconti.

LUCHINO VISCONTI «Morte a Venezia di Visconi è uno dei miei film preferiti. Avevo in mente proprio il personaggio di Tadzio – interpretato da Björn Andrésen – quando scrivevo le battute di Bosie. Il mio viaggio nel cinema italiano? Iniziò con Franco Zeffirelli, assistente di Visconti. A scuola i primi film che vidi furono Romeo e Giulietta e Fratello Sole, Sorella Luna ed entrambi conservavano l’estetica viscontiana. Devo molto anche a Francesco Rosi. Il vostro cinema poi è molto più orientato al design e all’attenzione ai costumi di qualsiasi altro».

IL PERSONAGGIO «La figura più importante del film è senza dubbio Robbie Ross. Wilde non capiva di essere innamorato di lui e non di Bosie. Ross era l’incarnazione di quello che dovrebbe realmente essere l’amore: cura e attenzione senza condizioni. Ma Wilde era troppo perso dentro se stesso per rendersene conto…»

  • Se vuoi (ri)vedere The Happy Prince lo trovi su CHILI

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