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Ronny Trocker: «Io, Human Factors e la mia prima volta al Sundance»

Percezione e mass media, punti di vista e il cinema come incontro: il regista si racconta a Hot Corn

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Ronny Trocker e Mark Waschke sul set di Human Factors. Foto di Andrea Kueppers

ROMA – Dopo aver debuttato nel 2016 nella sezione Orizzonti della Mostra di Venezia con il suo primo film, Gli Eremiti, ritroviamo l’altoatesino Ronny Trocker nella World Cinema Dramatic Competition del Sundance. Il suo Human Factors, proiettato in anteprima mondiale lo scorso 29 gennaio, è l’unico film italiano della selezione del festival di Park City, prodotto dalla IDM Film Fund & Commission Alto Adige insieme a Germania e Danimarca. La storia? Quella di una famiglia europea apparentemente perfetta che, dopo un’intrusione in casa, vede spezzarsi il suo equilibrio per la differente percezione che ogni membro dà all’accaduto. Abbiamo raggiunto telefonicamente Trocker in Belgio per parlare dell’idea alla base del film, di percezione, mass media e del cinema che ha contribuito a formarlo come regista.

Ronny Trocker sul set del film. Foto di Andrea Kueppers

LA PERCEZIONE «L’idea del film? Nasce dal mio interesse per il concetto di percezione. Mi sono domandato come percepiamo il mondo che ci circonda, specialmente in quest’epoca di social e mass media che cambiano il nostro modo di vedere le cose. Sono padre di due figli: mi sono anche chiesto come questa iper comunicazione attorno a noi possa cambiare il modo di comunicare all’interno di una famiglia, di uno spazio privato. E questo è anche il paradosso della coppia di genitori protagonista del film: hanno una grossa agenzia pubblicitaria, sono comunicatori professionisti, ma non riescono più a parlarsi tra di loro o sentire i bisogni dei figli. È stata questa l’ossessione principale che mi ha portato a scrivere la sceneggiatura. In un secondo strato di lettura questa storia parla anche di manipolazione, di costruzione della realtà, di punti di vista soggettivi e di come è possibile manipolare anche le aspettative del pubblico giocando con gli elementi di genere».

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Una scena di Human Factors

I PUNTI DI VISTA «Il grosso del lavoro è stato fatto in sceneggiatura. Ovviamente c’era il rischio che in sala di montaggio non funzionasse. Abbiamo girato il film quasi in sequenza, con i vari cambiamenti dei punti di vista. Per gli attori era un po’ confusionario (ride, ndr) e, certe volte, ero l’unico che capiva in quale momento della storia ci trovassimo. Sul set mi dicevano: “Ma che punto di vista è questo?”. In sala di montaggio abbiamo rispettato la sceneggiatura. Ma la vera difficoltà era trovare l’equilibrio tra i punti di vista senza che la narrazione diventasse noiosa. Mi premeva rispettare un certo ritmo e una certa tensione per far sì che non diventasse ripetitivo».

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Il poster di Human Factors

I MASS MEDIA «Volevo mostrare come i media entrano, anche inconsapevolmente, nei nostri spazi privati. Ho inserito gli elementi dei giornali, della tv e della radio per calare la storia in un contesto molto preciso. L’episodio raccontato alla radio, ad esempio, è realmente accaduto: in Germania un festival è stato annullato perché i nomi di due dipendenti arabi sono stati annotati male. Sono storie che entrano nel nostro universo e cambiano il nostro modo di pensare. Volevo mostrare come il mondo attorno a noi entra negli spazi privati ed esercitando un potere. I media, ad esempio, posso creare uno stato di paura e pregiudizio che ci influenza».

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Una scena del film

LA FAMIGLIA «Quando ho presentato il pitch del film ho descritto la famiglia protagonista come la perfetta famiglia europea. Sono bilingue, parlano francese e tedesco, due lingue molto importanti in Europa, fanno parte di una società in cui hanno successo professionale. Ma è tutta una facciata. Il film cerca di guardare dietro quest’immagine. Anche qui entrano in gioco i social perché siamo immersi in un marketing permanente di noi stessi in cui controlliamo costantemente la nostra immagine. All’inizio la famiglia che racconto ha un’immagine perfetta vista ma fuori e il film cerca di smascherarla».

Un’immagine di Human Factors

IL SUNDANCE «Il Sundance? Per il cinema indipendente è importantissimo. Rimarrà un luogo mitico perché non lo potrò scoprire quest’anno, ma è bellissimo farne parte anche virtualmente. Sono felice che il film possa iniziare il suo viaggio, che possa essere visto. È per questo che facciamo film. C’è sempre il rammarico di non poter andare al cinema. Il Sundance ha creato un’edizione online e la sta facendo benissimo, ma l’essenza di un festival è l’incontro. Hanno organizzato tutto con degli orari fissi per riprodurre gli appuntamenti del festival, ci sono dei Q&A, delle dirette su YouTube e Zoom, Stanno facendo tantissime cose. Ma parlando di cinema per me rimane un’esperienza collettiva. Lo streaming va benissimo come seconda possibilità per arrivare a un nuovo pubblico ma il posto ideale del cinema è la sala, l’incontro».

Human Factors è stato presentato nella World Cinema Dramatic Competition del Sundance

LA PRODUZIONE «Lo sviluppo del progetto è iniziato con l’aiuto della Film Commission dell’Alto Adige che ci ha finanziato. Ho fondato una casa di produzione a Castelrotto, la Bagarrerfilm, con mia sorella e un’amica per poter essere un po’ più indipendenti e flessibili. Abbiamo incominciato da lì e poi sono arrivati i produttori principali del film, i tedeschi, che avevano già prodotto il mio primo film interamente girato in Alto Adige. Per Human Factors volevo assolutamente girare in Belgio, dove attualmente vivo, perché l’idea visuale del film è nata sulla costa belga. Un luogo così brutto da essere quasi poetico (ride, n.d.r.). Abbiamo cercato i soldi Belgio ma non li abbiamo trovati. Conoscevamo una casa di produzione che fa dei film bellissimi in Danimarca, la Snowglobe, e avevano la possibilità di aiutarci. Così abbiamo creato quest’unione un po’ strana tra Italia, Germania e Danimarca grazia alla quale siamo riusciti a fare il film».

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Una scena del film

LE INFLUENZE «Ho iniziato a interessarmi al cinema abbastanza tardi. Sono cresciuto in un villaggio in montagna dove non esisteva il cinema. Quando sono partito da lì, ho scoperto tutti i registi del Neorealismo e uno dei miei registi italiani preferiti è sempre stato Michelangelo Antonioni. Quando poi sono andato in Argentina non ero sicuro di voler fare il regista. È stato un periodo molto importante per me. Non ho solo imparato a fare cinema ma anche a guardarlo. Il cinema argentino in quell’epoca ha visto uscire i primi film di Lucrecia Martel e Lisandro Alonso che mi hanno molto colpito. Tra gli altri registi ammiro molto Nuri Bilge Ceylan e ultimamente sono molto affascinato dai film di Kelly Reichardt. Ho visto First Cow, il suo ultimo film, già tre volte!».

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