ROMA – Trent’anni fa, dentro un’altra Italia, quella di Berlusconi, Baggio e del lutto di Senna che ancora stavamo rielaborando, la notizia – per chi non sapeva nulla – arrivò come un fulmine. Massimo Troisi era partito, se n’era andato per sempre, quasi come in uno scherzo dei suoi, ma questa volta non era partito per ritornare. Immediatamente si trasformò da semplice attore in una sorta di divinità, San Massimo di San Giorgio a Cremano, maschera tragicomica in grado di lenire dolori e pene della vita, sguardo stralunato e spalle inarcate, filosofo pop di un’esistenza mai compresa fino in fondo, ma – attenzione – anche capace di prendere posizioni politiche precise, senza timore di conseguenze o polemiche (vedi le feroci battute sulla Lega).

Massimo, Massimo, eroe popolare, riflesso di una città e di un popolo. Il torto maggiore che gli si può fare oggi però, a trent’anni dalla scomparsa, è considerarlo unicamente fenomeno napoletano o italiano, chiuderlo in un’etichetta, dentro un luogo, tra confini e limiti. Troisi nella sua breve carriera ha giocato un campionato a parte, fu un top player assoluto, degno compare di altri due fuoriclasse della Napoli degli anni Ottanta: Diego Armando Maradona e Pino Daniele. Troisi era Troisi, tanto che Troisi ripensato oggi fa praticamente genere a sè, come Totò. Non è commedia, non è semplice comico, non è nemmeno cinema, ma semplicemente lui. Dramma e risata, smorfia e poesia, vita vera e finzione. Dopo la sua fine, un vicolo cieco da cui tornare indietro, perché avanti non si poteva, non senza di lui perché quella strada poteva essere solo sua.

La vera domanda da farsi però oggi è un’altra: ma cosa rimane trent’anni dopo? E quanto rimane, in una società che in questi anni è radicalmente cambiata dal punto di vista della comunicazione, affogata dentro video, influencer, social media, ossessioni virali e comicità radicalmente mutata? La risposta è sorprendente: tanto, tantissimo. Troisi è morto e pure rimane vivo come non mai, i suoi sketch su YouTube vengono visti e rivisti da generazioni che ancora non erano nate quando morì (cercate quella sui politici, è a 2 milioni e mezzo di views), i suoi tempi comici rimangono di una modernità incredibile, il suo volto ritratto sui murales di Jorit sulla facciata esterna del Palaveliero di San Giorgio, il suo nome dato perfino a una scuola, rimasto nell’aria per sempre. Quasi come un passaparola.

E allora se – come diceva il suo postino – la poesia non appartiene a chi la scrive, ma a chi la usa, mai come oggi il cinema di Troisi appartiene a tutti noi, perché non è unicamente immagini in movimento, ma un antidoto indispensabile contro l’affanno quotidiano. No, non è cinema astratto il suo, ma cosa concreta, utile per (soprav)vivere, utile per decifrare quell’enigma mai risolto chiamato vita. Il suo disincanto è il nostro. La sua ironia è la nostra armatura. Amatelo, applauditelo, ricordatelo, ma non chiamatelo più con etichette abusate come “il comico dei sentimenti”, “il volto di Napoli” o “l’ultima maschera”, perché se c’era qualcuno che fuggiva la retorica era proprio lui. E poi, per definizione, il genio non ammette definizioni…
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