MILANO – Nel primo atto di Reptile uno dei detective dice: «Sono venuto al mondo da solo, lo affronterò da solo e morirò da solo». Una frase che non riuscirà più a scivolare via dalle spalle di ogni personaggio, a staccarsi dalla cornice di ogni singola inquadratura, la perfetta sintesi di quello che Reptile è e vuole essere, dall’omicidio iniziale alla risoluzione finale. Il primo lungometraggio di Grant Singer, importante direttore di video musicali dei maggiori artisti americani, è un crime thriller che insegue la scia di opere come True Detective e Zodiac, ma grazie a una scrittura minimalista e l’enorme prova attoriale di Benicio del Toro riesce a edificarsi addosso una struttura funzionale e una tensione che morde prepotentemente la materia filmica.

Disponibile su Netflix, la pellicola si muove in equilibrio su dei fili già stesi per tracciare la parabola di un poliziotto che si intreccia a quella di un omicidio capace di scandagliare l’anima di chi è costretto a entrare in quella brutalità. Reptile è Benicio del Toro. Si muove attraverso i suoi occhi, vive della sua presenza, respira attraverso i suoi sospiri, si sposta aspettando ogni suo gesto delle mani e cenno delle sopracciglia. Del Toro ingloba il film e lo fa suo, lo cannibalizza e vomita fuori un personaggio che resta, che pesa, un buco nero capace di attrarre ogni spillo di luce.

Il detective Tom Nichols è un misterioso vaso crepato, fratturato ma ancora assestato; ha uno sguardo empatico ma duro, levigato dal tempo, ha una ferita alla mano, un passato torbido che ancora gli bussa nei sogni e nella realtà, è innamorato perso ma geloso e possessivo. E Benicio del Toro lo personifica indossando una maschera sfaccettata ma che al suo interno ha poche smorfie, poche facce, è lui a decidere il ritmo. Tutto il resto risponde a lui come una liturgia che segue la divinità e Singer non fa altro che accompagnarlo attraverso una storia fatta di movimenti semplici, che lo possano così lasciare libero di muoversi a suo piacimento.

Una storia di un piccolo omicidio che dopo essere stato risolto crolla vertiginosamente su sé stesso e si rivela essere più complesso e profondo del previsto, aprendo così le porte a un inseguimento fuori dai ranghi della legalità e senza più nessun appiglio a cui affidarsi. Singer con Reptile non esagera, non forza la mano, non cerca la storia stupefacente, il colpo di scena eccessivo, resta in un campo da gioco semplice e limitato per circoscrivere una storia capace di raccontare le contraddizioni e le crepe reali di un’America persa nella corruzione, che non capisce più a quali valori aggrapparsi.

Reptile è un morbo che si espande, carte sul tavolo che cambiano colore, nuvole dense che si compenetrano in un cielo già coperto, è silenzio capace di diventare rumore assordante, solitudine che prende forma e circonda ogni fotogramma. Il primo lungometraggio di Grant Singer è un ottimo esordio sul concetto di distanza e isolamento, un film costruito per rimanere e per raccontare qualcosa in una maniera che il cinema non sfrutta abbastanza.
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