ROMA – «Michelangelo Antonioni dice che cerca solo di realizzare il Bello perché la Verità è Bellezza e la Bellezza è Verità. Ecco, questo è ciò che mi piace davvero. Mi piace fare cose belle…». Fu proprio con queste parole, che Jack Nicholson espresse tutto il suo amore per Professione: Reporter, pellicola del 1975, capitolo conclusivo della trilogia in lingua inglese del regista dopo i precedenti di Blow-Up e Zabriskie Point. Un film meno citato in cui il pessimismo angoscioso verso gli uomini e l’incomunicabilità, finisce con l’evolversi in una ridiscussione della realtà e delle stesse, singole, identità. Un’opera ambiziosa, preziosa, moderna: «Forse suonerà ridicolo. Ma quando scelgo i film da girare è perché mi interessa farli in quel modo. E Professione: Reporter rimane uno dei miei film preferiti. Non solo, molto probabilmente rimane la più grande avventura filmica che abbia fatto in tutta la mia vita…».
E non solo, perché, pur di preservare Professione: Reporter dal dimenticatoio del tempo, Nicholson ne acquistò i diritti dalla Metro-Goldwyn-Mayer a seguito di un progetto mai andato in porto curandone poi personalmente il restauro e l’edizione Home Video nel 2003 con la Sony Pictures Classics (detentrice dei dritti di distribuzione). Perché? Per il profondo legame creatosi con Antonioni. «Che fu una figura paterna. Ho lavorato con lui perché al tempo volevo fare il regista e pensavo che avrei potuto imparare tanto da un maestro. È una delle poche persone che conosco e che abbia mai ascoltato davvero…». Tanto erano legati Antonioni e Nicholson che, il 27 marzo 1995, alla 67° edizione degli Academy Awards, sarà proprio lui a consegnare al regista de L’eclisse l’Oscar onorario definendo le sue opere come delle metafore in grado di illuminare il silenzio nei nostri cuori.
Facciamo un passo indietro. Se è vero che per Nicholson la lavorazione di Professione: Reporter ha rappresentato molto più che un’esperienza folgorante, lo stesso non può dirsi per Antonioni che, anni dopo, arrivò perfino a disconoscerne la paternità. Il motivo? Il rapporto con la Metro-Goldwyn-Mayer: «Quando rivedo un mio film non sempre mi piace. Cioè, potrebbe piacermi una parte ma non il film tutto, nella sua interezza. Non direi di essere soddisfatto pienamente di Professione: Reporter». disse il regista. «Mi avrebbe soddisfatto se avessi potuto inserire tutte le parti che la MGM mi costrinse a tagliare per limitarne il minutaggio». Sembra infatti che gli imposero ingenti tagli in fase di post-produzione, specie considerando che il cut provvisorio di Professione: Reporter si aggirava intorno alle quattro ore, poi ridotte a poco meno di due ore e mezzo grazie alla mano esperta del montatore Franco Arcalli.
Per la Metro-Goldwyn-Mayer era ancora troppo lungo, immaginando il cut per il mercato nordamericano inferiore alle due ore: «Quella versione non la posso proprio accettare», disse Antonioni. «Se avessi potuto, avrei rimosso la firma. L’unica che ho firmato, e che considero l’unica versione accettabile, è quella europea, ma anche quella versione è stata mutilata in post-produzione». Originariamente intitolato Fatal Exit, come l’omonimo soggetto da cui è tratto firmato dallo sceneggiatore Mark Peploe – poi stretto collaboratore di Bernardo Bertolucci, fratello della compagna Clare – Professione: Reporter inizia da uno script redatto dagli stessi Antonioni e Peploe dal titolo Technically Sweet, su di un giornalista che sceglie di perdere la propria identità nella foresta amazzonica. Non fosse per il lievitare dei costi di produzione, che costrinsero Carlo Ponti ad abortirne la lavorazione, sarebbe sicuramente diventato un altro (gran) film.
Si ripartì proprio da qui per Professione: Reporter, dall’idea di un viaggio esotico dove, si passa dall’umida (e improduttiva) Amazzonia alla suggestiva (e ben più spendibile) tratta Chad-Barcelona-Osuna. Usando le parole dello stesso Antonioni: «Un uomo segue il suo destino e guarda la realtà raccontata» divenendo, al contempo, protagonista e passeggero della propria esistenza in un’impossibile fuga dal passato e da sé stessi che è pura suggestione giocosa di destini che si sovrappongono e si incrociano in un guardare sempre avanti e mai (più) indietro. Il resto lo fanno i silenzi di Antonioni, la regia asciutta, gli agenti scenici che si gettano nello spazio, la delicatezza di montaggio che restituisce al pubblico la sensazione di assistere ad un flusso di coscienza in mutamento, e quell’intuizione pirandelliana nell’inerzia identitaria David Locke/David Robertson riecheggiante, per certi versi, all’Adriano Meis de Il Fu Mattia Pascal.
Nell’interpretazione di quest’ultimo elemento di riflessione viene in soccorso il genio cinematografico di Alberto Moravia che, nel 1975, oltre a ritenere Professione: Reporter come il film di Antonioni più rigoroso ed essenziale, sottolineò proprio il legame con Il Fu Mattia Pascal evidenziandone il differente approccio autoriale: «Ma Pirandello vuole dimostrare, in maniera sarcastica e paradossale, che l’identità è un mero fatto sociale, cioè che esistiamo in quanto gli altri riconoscono la nostra esistenza. Antonioni invece sembra pensare giusto il contrario e cioè che esistiamo, sia pure come grumo di dolore, anche e soprattutto fuori della società». Sino al climax. Quella famosa e spiazzante penultima scena di morte dal vertiginoso piano sequenza nata per caso: «Ho avuto l’idea per il climax appena ho iniziato a girare. Sapevo che David sarebbe dovuto morire ma l’idea di vederlo morire mi annoiava».
«Ho quindi pensato a una finestra e a quello che c’era fuori, al sole del pomeriggio. In una frazione di secondo mi è venuto in mente Ernest Hemingway e Morte nel pomeriggio». Ovvero il saggio dello scrittore sulle cerimonie e le tradizioni della tauromachia della Spagna. Ed ecco i sette minuti che consegnarono Professione: Reporter all’immortalità artistica e ad un’impossibile soggettiva dentro e fuori le sbarre di un’isolata camera d’albergo, resa possibile da un sistema di giroscopi impiantati su di una camera da 35mm. A conti fatti, indiretto precursore della steadycam di Garrett Brown che sarebbe nata di lì a poco tra Questa terra è la mia terra, Rocky e Il maratoneta. Uno degli elementi di indubbio interesse a proposito di Professione: Reporter però è anche la presenza di Maria Schneider che va ad intrecciarsi, indelebilmente, allo scomodo precedente italiano di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci.
Dalla sua infatti Antonioni non ha mai nascosto il suo (velato) disinteresse per l’opera di Bertolucci affermando come: «Non mi indigno di niente, ma un uomo e una donna possono combinare insieme molto di più di quello che si vede in quel film». Per certi versi, specie considerando il problematico Cari genitori di Enrico Maria Salerno del 1973 dove la Schneider divise la scena con due regine del cinema italiano come Catherine Spaak e Florinda Bolkan, Professione: Reporter rappresentò la riabilitazione per l’attrice francese su cui Antonioni spese parole al miele: «È stato difficile lavorare con Nicholson e Schneider perché sono attori completamente diversi: naturali in modi opposti. Jack sa dove si trova la telecamera e agisce di conseguenza, ma Maria no, non sa niente, lei vive la scena. È grandiosa. Ha un dono per l’improvvisazione e questo mi piace».
Ed era cinema Maria Schneider. Spiritosa, affascinante e con quella verve tipica di chi sapeva di poter prendere a morsi il mondo. Antonioni le regalò il ruolo della selvaggia e virgiliana donna senza nome con cui ricalibrare lo spirito libero della bertolucciana Jeanne in una nuova forma più misteriosa, monosillabica e viaggiatrice e non fu facile. Dopo la difficile lavorazione di Ultimo tango a Parigi, infatti, la Schneider era scottata, intimorita all’idea di lasciarsi guidare da un altro peso massimo della regia italiana. Non a caso – e non deve stupire più di tanto scoprirlo – ci volle molto prima di convincersi ad accettare la parte, ma al punto che la sua sostituta, l’emergente Susan George di Cane di paglia, aveva già il biglietto aereo per Barcelona per iniziare le riprese.
Alla fine la Schneider accettò, e fu un bene. A differenza di Bertolucci infatti Antonioni la ascoltò, ne comprese l’esigenza di non essere ridotta a una banale sessualizzazione: «Non volevo essere una star né una sex symbol, né tanto meno essere un’attrice scandalosa: volevo semplicemente fare cinema». Nell’unica scena di nudo presente in Professione: Reporter c’è intimità, discrezione e la precisa scelta di di lasciare desunto l’atto sessuale, ma servì a poco. A quattro anni di distanza da Professione: Reporter si ripeté la stessa dinamica di Ultimo tango a Parigi. Presentatole il progetto come un ambizioso peplum kolossal, fu scritturata in Caligola di Tinto Brass, per poi fuggire dal set dopo aver girato una scena di sesso con Malcolm McDowell parecchio spinta: «Sono un’attrice, non una prostituta!», ma quella è tutta un’altra storia…
- LEGENDS | Quell’ultimo tango di Maria Schneider
- LONGFORM | Ultimo Tango a Parigi, uno scandalo che divenne capolavoro
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Qui sotto il trailer originale restaurato:
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