MILANO – Dov’eravamo rimasti? In È stata la mano di Dio, Paolo Sorrentino ci mostrava la Napoli della sua infanzia, mai così intima, personale e legata ad una matrice autobiografica dove Filippo Scotti incarnava un suo alter ego. Con il nuovo film Parthenope, Sorrentino abbraccia invece la leggenda e il mito della sirena, divinità napoletana, ritornando a Napoli (ma forse non se ne è mai andato) per allestire un ritratto della città che passa dalla bellissima e omonima protagonista interpretata da Celeste Dalla Porta, una donna che porta il nome della sua città, ma non è né sirena né mito. Seguiamo così, scena dopo scena, le vicende della sua vita attraverso i decenni, dagli anni Cinquanta ai giorni nostri, tra Capri e Napoli, tra vita e amore.
Celeste Dalla Porta, scovata dallo stesso Sorrentino e al primo ruolo, è l’ennesimo alter ego del regista, stavolta una donna, metafora di cosa significhi crescere sotto la mistica ombra del Vesuvio, tra peso e leggerezza, ombre e sole. Ed è forse per la prima volta nella filmografia del regista proprio questo il personaggio che accende la consapevolezza di chi gli sta intorno – perché colpiti probabilmente dalla bellezza e dalla sua intelligenza – provocando reazioni anche abbastanza forti. Partenope viene rimproverata di parlare solo con frasi ad effetto e di avere sempre la risposta pronta, come molti altri personaggi sorrentiniani, da Jep Gambardella in giù. Ed è proprio chi le gravita attorno a redarguirla, dal disilluso fratello maggiore Raimondo (Daniele Rienzo) al John Cheever di Gary Oldman.
Partenope, la prima della classe, è lo slancio per l’autoconsapevolezza di Paolo Sorrentino che colpisce tutti tranne lei (e lui regista, giunto solo adesso a tempo debito a questa consapevolezza), ma soprattutto colpisce Napoli. Se ne La Grande Bellezza l’Italia era confezionata per uno sguardo esterno (ed estero), il microcosmo napoletano è confezionato per gli italiani e i napoletani stessi, in un dipinto che eredita l’estetica del capolavoro premio Oscar del regista e rende la città grande, più di quanto già non lo sia. Un mondo a parte in cui non manca la retorica, ma non è mai davvero cattiva come Sorrentino vuole farci credere, ma anzi si sente che è sofferta e che arriva da una personalità anche piuttosto malinconica a riguardo. Proprio come Partenope, che non a caso è anche l’antico nome della città di Napoli.
Non c’è aspetto femminile, femminista o misogino nello sguardo che la camera rivolge alla sua protagonista perché non erano quelle le intenzioni, ma piuttosto si vuole mostrare una donna che ha tutte le facoltà di sentirsi ed essere libera in una città che fornisce le condizioni per farla sentire tale. La bellezza di Partenope ovviamente c’è ed è innegabile, ma non è un’arma o un mezzo, è un modo per sopravvivere ai momenti più bui ed è infatti dosata: Partenope, se si concede, lo fa solo per affrontare la vita al meglio delle sue possibilità. A questa sfida partecipa anche una galleria di personaggi pittoreschi, tra cui il già citato Gary Oldman e poi Isabella Ferrari, Marlon Joubert, Silvio Orlando, Luisa Ranieri e Stefania Sandrelli, che con le loro maschere disvelano risultati altalenanti.
È un ritratto sulla vita, la libertà e la bellezza (sinonimi della città di Napoli, se vogliamo) che porta per una volta i luoghi a Sorrentino e non viceversa, rimanendo saldo alla sua estetica e alla sua idea di corpi sacri e profani (con un richiamo anche a The Young Pope). Alla fine Parthenope è soltanto un nuovo tassello del cinema di Sorrentino che – come ogni suo film – farà discutere e dividerà i fan più accaniti e i detrattori più agguerriti, ma è innegabile il sentimento di fondo che attraversa Parthenope come film e Partenope come personaggio che smuove il motore del cinema: abbiamo trovato una nuova miccia…
- INTERVISTE | Sorrentino racconta Parthenope a Cannes
- HOT CORN TV | Parthenope, una clip del film:
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