ROMA – Una città aperta sul mare, di grande vitalità, tra colori e suoni. Così Paolo Sorrentino aveva voluto mostrare la culla della sua infanzia in un film che – si sa – era autobiografico, È stata la mano di Dio. Sotto il filtro della leggenda della sirena, divenuta divinità napoletana, con la nuova pellicola presentata a Cannes 77, Parthenope, il regista estende questo desiderio di mostrarla. E così ecco il destino di questa figura tutelare della città, legato a quello di Napoli, che rimanda ad amori veri e indicibili, e suggerisce tutta la gamma dei sentimenti provati da Partenope, la protagonista del film di cui seguiamo il viaggio dagli anni Cinquanta ai giorni nostri. Con protagonisti la debuttante Celeste Dalla Porta, Isabella Ferrari, Biagio Izzo, Marlon Joubert, Dario Aita, Daniele Rienzo, Gary Oldman, Silvio Orlando, Luisa Ranieri e Stefania Sandrelli, ecco Parthenope, ora al cinema con Piper Film.
Un film così descritto da Sorrentino in conferenza stampa a Cannes 77: «Nella prima parte del film, da giovane, Partenope coincide con la città, Partenope è Napoli. Ci sono due misteri e loro sono due misteri diversi. Nella seconda parte di Parthenope, invece, il suo sguardo diventa più critico, diventa disincantata e disillusa, come accade spesso quando si diventa adulti o semplicemente si cresce. È una donna libera, Partenope, molto spontanea. Lei non giudica come invece sa fare molto bene la città, Napoli, che sa essere sempre giudicante. Partenope è lo specchio della Napoli in cui sono cresciuto e il film è, un po’, il matrimonio, tra la bellezza della donna e la bellezza della città. C’è una coincidenza, infatti, tra il personaggio e la città. Il personaggio prende il nome dalla città: Partenope è l’antico nome di Napoli».
Questo ci porta alla Partenope di una sensazionale e magnetica Dalla Porta al debutto assoluto. Un alter-ego al femminile per Sorrentino: «Mi sento molto vicino a Partenope, per alcuni aspetti, per la possibilità di vedere aspetti che la trasformano in un’antropologa che guarda il mondo. Qualcosa che ha a che fare molto con il mio lavoro di regista. Sento con lei una grande affinità, sento che condividiamo cose per quanto riguarda le relazioni. Penso che il trauma sia vita, che sia un sinonimo di vita. Lei non ha subito un trauma specifico al di là dell’aspetto della morte del fratello, ma se volessimo provare a riassumere, direi che la vita è piena di traumi e la colpa è della vita in sé. La scelta di Celeste Dalla Porta si riassume così: Cercavo un’attrice che fosse credibile sia a diciotto anni che a trentacinque, lei era perfetta».
È su di lei che Sorrentino costruisce Parthenope. Un film – forse più una fiaba incantata dal tempo sospeso e dallo sviluppo lineare – che è, contemporaneamente, coming-of-age e ritratto di Napoli nel colore e nel calore delle sue anime, ma sarebbe veramente riduttivo parlare in questi termini della tredicesima regia di Sorrentino. Sempre da Cannes, infatti, l’autore parla di Parthenope come di un film sulla libertà: «Partenope è una donna che nasce in una condizione perfetta per essere libera. È nata in una città libera caratterizzata dalla mancanza di giudizio. Non è affatto un giudizio e lei ha tutte le condizioni favorevoli per portare avanti la sua lotta per la libertà. Una lotta che risale a molto tempo fa visto che non abbiamo smesso di lottare per la libertà al giorno d’oggi. Ci sono somiglianze tra la lotta per la libertà di allora e quella di oggi».
Perché è nata libera Partenope, nell’acqua, vestendosi di occhi spenti che sanno brillare all’occorrenza, voglia di libertà, risposta pronta (sempre!) e la vita tutta intorno: dappertutto! Non sa niente ma piace tutto a Partenope. Partenope che vive il presente perché: «Il futuro è più grande di te e di me» con la consapevolezza che può prendersi tutto senza nemmeno chiedere: basta poco. Anche i silenzi. Tutto Parthenope ne è costellato. Silenzi lunghi ravvivati dalle dolci zoomate della cinepresa dove sono spesso i corpi, i volti e le ombre – caratteriali e non – a parlare. Parthenope è un film di risposte giuste a domande sbagliate. Un’opera tenera, dolcemente nostalgica, che vive di calma apparente, traumi laceranti e tumulti interiori. E amori impossibili – puri e malati, senza sapore – e altri morti dall’odore acre, di promesse che svaniscono nel sonno e di letti con cui viaggiare nella notte.
Ma è anche un film sul crescere, Parthenope, sulla disillusione dell’età adulta e su come la vita ci costringa ad abbandonare il nostro bambino interiore – quello che si meraviglia per tutto e per cui l’amore è solo un gioco e ogni bacio porta un fiore e una promessa – per accettare infine, con arrendevolezza, una vita arida e serena di occasioni mancate. Sullo sfondo, come sempre, Napoli. Triste e frivola, determinata e svogliata, viva e sola. Una città dove c’è posto per tutto e per tutti, tranne che (forse) per l’amore. Un film onirico, magico, indimenticabile e bellissimo, che porta in dote una lezione preziosa cucita tutta addosso all’ultima linea dialogica, sospesa tra il passato della Dalla Porta e il presente narrativo della Sandrelli: «L’amore per provare a sopravvivere è stato un fallimento. Ma forse non è così…»
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