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Parasite | Anatomia di un capolavoro: la metafora umana di Bong Joon Ho

Il film del cineasta sudcoreano è entrato, di diritto, tra le migliori opere dell’ultima decade

Il cast al completo di Parasite, in un dettaglio del poster

ROMA – “Il cinema è in profonda crisi: mancano idee nuove”. Bugia. Chi lo dice mente. O meglio, chi lo dice dovrebbe vedere Parasite di Bong Joon Ho. Che, Palma d’Oro a parte, senza troppi giri di parole, è già tra i migliori film del decennio. Infatti, come poche volte prima, nei suoi 131 minuti, c’è così tanta espressività cinematografica da rimanerne suggestionati, addirittura intimiditi. E, accogliendo in pieno l’appello del regista, nel raccontarvi cosa sia Parasite, eviteremo qualsivoglia accenno approfondito alla trama. Ma, una cosa, possiamo dirla: dopo averlo visto, per giorni, vi sembrerà superfluo e inutile vedere un altro film.

La famiglia Ki-taek

Qui, nella livellata storia della famiglia Ki-taek e della famiglia Park, troverete ciò di cui non sapevate aver bisogno. Incastrato geometricamente ed emotivamente in un quadro spiazzante, maestoso e meraviglioso, da appendere in bella vista nella memoria artistica contemporanea. La storia? Vi basti sapere che, per i Ki-taek (interpretati, in ordine sparso, da Song Kang-ho, Choi Woo-shik, Park So-dam e Jang Hye-jin) che abitano in un seminterrato sporco e puzzolente nei sobborghi di Seoul, tutto cambia quando, uno alla volta e per mezzo di una molteplice menzogna, iniziano a lavorare per i facoltosi Park (Lee Sun-kyun, Cho Yeo-jeong e Jung Ji-so e il piccolo Jung Hyun-joon). Insinuandosi nella loro enorme villa.

Jo-Yeo-jeong è Choi Yeon-gyo, della famiglia Park

Sì, proprio come quei parassiti che infestano la loro maleodorante cantina. Se credete che Parasite sia pieno di metafore siete sulla strada giusta, come scherza qua e là lo stesso cineasta sudcoreano, che fa della scenografia il personaggio principale: quella villa mutevole e organica, palcoscenico d’eccezione e torbida scatola in cui rimanere intrappolati. Protagonista onnisciente e influente, tanto da poterla considerare al pari dell’Overlook Hotel o della casa di Norman Bates. Paragoni azzardati? No. E di fatti ci puntiamo forte: un film come questo, merita di stare tra i libri di storia.

In cerca del Wi-Fi

Ma, Parasite, oltre alle metafore, è anche strapieno di dilatazioni e contrazioni. Tecniche, visive, musicali. Idee e messaggi che si inseguono, tra lacrime e risate, incrociandosi e sovrapponendosi; generando una domanda cruciale che vi martellerà ben oltre dopo i titoli di coda: davvero possiamo considerare negativi o positivi i Ki-taek e, viceversa, i Park? Le scelte, le svolte, i segreti, tra una mostruosità accettabile e i fastidiosi odori di un vecchio sotto scala. Dare una risposta è impossibile. Puntare il dito, ci dice il regista, è inutile. Nonché stupido. Perché, oggi, quei mezzi giustificati dal fine, sono le marionette di un mondo triste e oscuro, nel quale le relazioni umane si perdono nel fondo della disperazione più totale. Né ottimismo, né pessimismo: bensì solo una commedia umana. Buffa, perversa e drammatica, come quelle di Plutarco, di Shakespeare e di Sartre.

Una delle inquadrature già cult di Parasite

E Bong Joon Ho, che una certa bravura l’aveva dimostrata fin da Madre e Snowpiercer, mette al centro del suo film l’incrocio perfetto tra il cinema asiatico ed occidentale, sfuggendo al genere e inseguendo solo l’intelligenza, energetica ma elegante, in un sinuoso gioco a cui è impossibile resistere. Legando stretti tra loro due mondi, l’alto e il basso, in una lotta sociale senza esclusione di colpi. Mentre un tripudio di scrittura e di immagini vengono accompagnate dagli archi impetuosi della colonna sonora (rigorosamente originale) di Jung Jae II. E allora, grazie a Bong Joon Ho e al suo Parasite, possiamo dirlo: il cinema non è mai stato meglio. È l’uomo, forse, che non se la passa tanto bene.

Qui potete vedere il trailer di Parasite:

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