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Lincoln | Steven Spielberg, Daniel Day-Lewis e la lettera d’amore a un presidente

Alba di gloria di John Ford, il metodo, la ricerca e il terzo Oscar all’attore. Cronaca di un capolavoro

Daniel Day-Lewis trasformato in Abraham Lincoln.

ROMA – «Non posso vedere quest’uomo senza avvertire in lui uno di quegli esseri umani cui ci si attacca in modo personale, per quella sua combinazione di purissima e generosa tenerezza con il coraggio che è proprio del West». Lo disse Walt Whitman, la cui ammirazione per Abraham Lincoln raggiunse le forme dell’elegia post-mortem di quel «O Capitano! O mio Capitano!» reso poi immortale da L’attimo fuggente di Peter Weir (di cui potete leggere qui). Ma il sentimento di Whitman era quello di ogni patriota americano che si rispetti, dallo stato di Washington alla Florida, dal Maine alla California. Tra questi, Steven Spielberg che – dopo le suggestioni tematiche tra la lettera di Bixby de Salvate il soldato Ryan e lo stralcio del celebre Discorso di Gettysburg in Minority Report – scelse di percorre la via del biopic celebrativo: parte da qui il viaggio di Lincoln nella nostra nuova puntata di Longform (trovate qui le altre puntate).

Lincoln
Steven Spielberg con Daniel Day-Lewis sul set.

Ma andiamo con ordine, perché l’icona Lincoln ha sempre avuto un certo ruolo di rilievo nella storia della Settima Arte. In epoca moderna è stato un grandioso Lincoln il compianto Hal Holbrook (presente qui in un piccolo ruolo) che tra il 1974 e il 1986 prese parte alle miniserie Lincoln e Nord e Sud I-II che ne tratteggiarono impareggiabili lineamenti caratteriali. Ma andando indietro sino alla Golden Age Hollywoodiana il cinema diede grande spazio alla sempiterna figura presidenziale. Ne Il cavaliere della libertà del 1930 il padre del cinema americano D.W. Griffith offrì un quadro totalizzante dell’uomo politico Lincoln affidandolo al carismatico Walter Huston. Dieci anni dopo con Abramo Lincoln del 1940, John Cromwell ne dipinse l’epica del self-made-man dall’adolescenza sino al suo approdo a Washington cucendola addosso ad un grande Raymond Massey, volto e corpo della quintessenza del sogno americano.

Lincoln tra passato e presente, tra Il cavaliere della libertà e Alba di gloria
Lincoln tra passato e presente, tra Il cavaliere della libertà e Alba di gloria

Nel mezzo ci fu John Ford che – con il suo Alba di gloria del 1939 – scelse di raccontare uno specifico episodio del giovane Lincoln avvocato da cui traslare un variopinto ritratto che restituì appieno la carica valoriale eccellente del mito presidenziale. Al centro della scena c’era il primo feticcio fordiano, Henry Fonda che – inizialmente – non si sentiva all’altezza di un simile ruolo, ma che dopo una prova con gli abiti di scena si convinse: «Mi sentivo come se stessi interpretando Cristo stesso in un film…». Riparte proprio da qui il Lincoln di Spielberg che, oltre a ricalcare la ratio artistica fordiano del singolo episodio (la promulgazione del XIII emendamento del 1865 che sancì la fine costituzionale della schiavitù) da cui irradiare un affettuoso e onesto profilo imperfetto del Lincoln uomo, marito, padre, brillante stratega e narratore ironico, visse proprio di una uguale inerzia attoriale.

Un profilo imperfetto e sincero alla maniera di Steven Spielberg

Proprio come Fonda, anche Daniel Day-Lewis era dubbioso all’idea di interpretare il 16° Presidente degli Stati Uniti d’America, ma al punto che quando Spielberg gli propose la parte nel lontano 2003 – ben nove anni prima della sua effettiva realizzazione (Lincoln sarà presentato al New York Film Festival l’8 ottobre 2012) – Day-Lewis gli rispose attraverso una lettera con cui esprimergli tutto il suo garbato dissenso. La seconda scelta corrispose a Liam Neeson che con Spielberg aveva già lavorato nel meraviglioso Schindler’s List (di cui potete invece leggere qui) e che nei successivi quattro anni lesse oltre venti biografie su Lincoln arrivando perfino a fare ricerche a Springfield, la sua città natale da cui desumere materiale per lavorare sui lineamenti caratteriali dall’inizio del suo mandato sino all’assassinio. Perché al tempo il concept di Lincoln era più vicino a Il cavaliere della libertà che non ad Alba di gloria.

Al centro del racconto di Lincoln, la promulgazione del XIII emendamento del 1865 che sancì la fine costituzionale della schiavitù

Pur essendo tratto dal romanzo storico-biografico Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln di Doris Kearns Goodwin del 2005 incentrato sugli ultimi mesi di vita del Presidente infatti, il primo draft targato John Logan e il secondo targato Paul Webb avevano un respiro epico dalla portata più ampia. A Spielberg non piaceva nessuno dei due script, non li sentiva suoi. Ma al punto che, pur con la data di inizio riprese già fissata a gennaio 2006, mise in stand-by il progetto per dedicarsi alla pre-produzione del più solido Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo di cui aveva già le idee chiare. In suo soccorso arrivò lo sceneggiatore Tony Kushner con cui era fresco di collaborazione (e di intesa) con Munich e che trovava molto accattivante l’idea che uno scrittore ebreo potesse scrivere degli ideali abolizionisti e solidali di Lincoln.

«È stato il più grande leader democratico del mondo solo che non lo capisco. Non capisco quanto sono state grandi le sue azioni»

«È stato il più grande leader democratico del mondo solo che non lo capisco. Non capisco quanto sono state grandi le sue azioni come non capisco come William Shakespeare o Mozart siano riusciti a scrivere l’Amleto o Così fan tutte», così Kushner il cui draft iniziale del 2008 consisteva di 500 pagine aventi ad oggetto gli ultimi quattro mesi di vita di Lincoln. Per febbraio 2009 scrisse lo script definitivo da lui scherzosamente considerato come «L’ennesimo libro scritto su Abramo Lincoln». A quel punto però, contro ogni pronostico, il colpo di scena: Neeson abbandonò il progetto. La versione ufficiale è che, per ragioni anagrafiche, l’ex-Oskar Schindler riteneva di non essere più adatto alla parte, quella ufficiosa è che non si era ancora ripreso del tutto dalla recente scomparsa della moglie Natasha Richardson. Senza specifiche idee su chi potesse essere il suo Lincoln, Spielberg ricontattò Day-Lewis.

«Avrei fatto Lincoln solo se Daniel avesse deciso di interpretarlo» disse Spielberg al riguardo

Quasi a mettersi il cuore in pace Spielberg disse a sé stesso che tutto sarebbe dipeso dalla risposta di Day-Lewis: «Avrei fatto Lincoln solo se Daniel avesse deciso di interpretarlo». Sei anni, una strepitosa performance (Daniel Plainview ne Il Petroliere) e un clamoroso flop artistico oltre che commerciale (Guido Contini in Nine) dopo, Day-Lewis si convinse ad accettare il ruolo. Il motivo? Un’abile opera di persuasione dell’ex-compagno di set nello scorsesiano Gangs of New York Leonardo DiCaprio che con Spielberg aveva lavorato in Prova a prendermi del 2002. Day-Lewis, a dire il vero, è sempre rimasto dell’idea di quando Spielberg gli propose il ruolo per la prima volta, ma stavolta era tutto diverso: «Ho sempre pensato fosse una pessima idea, ma a quel punto era troppo tardi, ero già attratto dall’orbita di Lincoln ed è un’orbita potente la sua».

Daniel Day-Lewis, Lincoln e la quintessenza del Metodo
Daniel Day-Lewis, Lincoln e la quintessenza del Metodo

«È interessante Lincoln perché tendiamo sempre a tenerlo a distanza, a mitizzarlo sino alla disumanizzazione. Quando ci si avvicina a lui e ai suoi vasti corridoi però diventa istantaneamente accogliente e accessibile, com’era nella vita» e qui è il metodo a parlare, di cui Day-Lewis è forse la contemporanea personificazione che più si avvicina al perfetto, al sublime. Oltre che per le ricerche e l’immedesimazione, Day-Lewis lavorò soprattutto sulla voce da dare a Lincoln. Non appena trovata sembrerebbe che la incise su un’audiocassetta per poi inviarla a Spielberg dentro ad una scatola con sopra inciso un teschio e due ossa incrociate: «Può aprirla solo Steven Spielberg». Esperienza, quella dello sviluppo caratteriale del suo protagonista-principe, che Spielberg affrontò con entusiasmo e meraviglia: «Daniel ha fatto una cosa che mi ha reso triste, voleva aspettare un anno: ed è stato un colpo da maestro».

«Durante le riprese ho chiamato Daniel, Mr.President e Sally (Field) Molly/Mrs.Lincoln»

«Un anno per fare ricerca. Un anno per trovare il personaggio nel suo processo privato. Aveva un anno per scoprire come suonava Lincoln e ha infine trovato la sua voce. L’aveva talmente radicato nella psiche e nell’anima che sarei andato al lavoro sapendo che avrei avuto davanti Lincoln». E così fu. Nei successivi tre mesi di lavorazione Spielberg si rivolse ai suoi attori con il nome del personaggio: «Durante le riprese ho chiamato Daniel, Mr.President e Sally (Field) Molly/Mrs.Lincoln» e non per specifiche esigenze legate al Metodo: «Sapevamo di essere nel XXI secolo in ogni momento, ma una volta saliti sui palchi della Casa Bianca tutti abbiamo voluto dare un contributo al ricordo di questo momento critico della nostra storia condivisa». Spielberg contribuì alla causa lasciando in camerino il suo tipico cappellino da baseball in favore di un abito più regale: «Lo indossai tutti i giorni, volevo solo mimetizzarmi».

Lincoln fu presentato al New York Film Festival l'8 ottobre 2012
Lincoln fu presentato al New York Film Festival l’8 ottobre 2012

Di lì in avanti il timore di Day-Lewis divenne vero amore per il suo agente scenico: «Non ho mai sentito quella profondità di amore per qualcuno che non ho mai provato, penso sia questo l’effetto di Lincoln su chi si prende tempo per scoprirlo» – per poi aggiungere – «So di non essere Lincoln ma la verità è che l’intero gioco del Metodo riguarda la creazione di un’illusione, e per qualsiasi ragione – per quanto folle possa sembrare – una parte di me può permettersi di crederlo per un certo periodo di tempo senza farsi domande», sino al dolce ricordo dell’assenza: «Mi manca interpretarlo. C’è stato un momento in cui avevo paura del mio futuro. Quando da giovane vidi i primi film di Scorsese ho visto un’America come luogo di infinite opportunità, con Lincoln abbiamo cercato di mostrare quel senso di grande possibilità democratica», o del meglio della politica americana.

Lincoln: Steven Spielberg e quella lettera d'amore al Presidente più grande
Lincoln: Steven Spielberg e quella lettera d’amore al Presidente più grande

Quella giusta, buona, di quell’agire libertario e solidale forse fin troppo idealizzato per ragioni propagandistiche da cinema e televisione (The West Wing), che in Lincoln vede cristallizzarsi nell’effige di un Presidente più-icona-che-uomo (ma soprattutto uomo) interamente costruito di quel senso d’azione comune americano i cui valori furono gli stessi che guidarono John Ford nella codifica del Mito della Frontiera, o dell’aver fiducia nel domani ignoto, andando ad ovest, verso un nuovo inizio. Un sogno americano, quello di Lincoln, la cui straordinarietà filmica alla maniera de La sottile linea rossa ha visto tanti volti preziosi del panorama hollywoodiano prendervi parte: Sally Field, Tommy Lee Jones, Joseph Gordon-Lewitt, James Spader, David Strathairn, Tim Blake Nelson, Jared Harris, Lee Pace, David Costabile, Bruce McGill, Jackie Earle Haley, John Hawkes, Luke Haas, Gloria Reuben, Walton Goggins, Dane DeHaan, Bill Camp, David Oyewolo, Adam Driver e Michael Stuhlbarg (oltre al sopracitato Holbrook).

«So di non essere Lincoln ma la verità è che l’intero gioco del Metodo riguarda la creazione di un’illusione»

Un prezioso retaggio decennale arricchito di senso dagli eventi della sera del 24 febbraio 2013. Quell’incredibile notte degli Oscar dove Lincoln si presentò come avversario di peso viste le 12 nomination (tra cui Miglior film e Miglior regia). Ne vincerà solo due: migliore scenografia e – manco a dirlo – attore protagonista. Il terzo per Daniel Day-Lewis dopo quello del 1990 (Il mio piede sinistro) e del 2008 (Il Petroliere) che lo vide vincitore di un mismatch attoriale da sogno. Perché in quella cinquina c’era anche Joaquin Phoenix la cui performance magnetica nei panni del caotico Freddie Quell nello straordinario The Master era senz’altro l’avversario da battere. Ma se Phoenix fu incredibile, Day-Lewis lo fu di più, elevando il Metodo sino al concetto di Possessione così da combinare l’incredulità della meraviglia alla lezione storica. Molto più di un gran film o di una grande performance: è rinascita.

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Qui sotto potete vedere il trailer del film:

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