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La scommessa di Franco Nero e il ritorno di Kevin Spacey ne L’uomo che disegnò Dio

La seconda regia dell’attore? Riporta (finalmente) sul set Spacey dopo il lungo esilio da Hollywood

L'uomo che disegnò Dio
Uno dei momenti di Kevin Spacey ne L'uomo che disegnò Dio.

ROMA – Emanuele è un solitario e cieco anziano con un grande dono: la capacità di ritrarre chiunque semplicemente udendone la voce. Nessuno conosce questa magia, tranne la sua assistente sociale Pola e gli studenti della scuola serale dove insegna ritrattistica a carboncino. L’arrivo nella sua vita di Maria e sua figlia Iaia, due immigranti africane, svelerà al mondo il dono di Emanuele. Il Talent Circus, uno show televisivo a caccia di freak e condivisioni, lo renderà una star. Fama, gloria e problemi di ogni genere avvolgeranno la vita di Emanuele che a quel punto vorrà soltanto una cosa: ritornare nell’anonimato. Questa la sinossi de L’uomo che disegnò Dio, seconda regia di Franco Nero a diciassette anni di distanza dal debutto di Forever Blues, per un’opera di suo già parecchio discussa.

Al cinema dal 2 marzo, L'uomo che disegnò Dio è la seconda regia di Franco Nero
L’uomo che disegnò Dio è la seconda regia di Franco Nero

Prodotta dalla Louis Nero Film – L’Altrofilm in co-produzione con Rai Cinema, L’uomo che disegnò Dio vede dalla sua un nutritissimo cast con, accanto al padrone di casa Franco Nero – anche co-sceneggiatore assieme ad Eugenio Masciari e Lorenzo De Luca –, Stefania Rocca, Faye Dunaway, Massimo Ranieri, Robert Davi, Andrea Cocco, Diego Casale, Wehazit Efrem Abraham, Isabel Ciammaglichella, ma – soprattutto – Kevin Spacey, qui al primo ruolo cinematografico dopo le accuse di cattiva condotta sessuale mosse contro di lui nel 2017 che ne decretarono la cancellazione, e non solo, da House of Cards e Tutti i soldi del mondo dove, rispettivamente, Robin Wright/Claire Underwood accompagnò la serie verso il naturale epilogo mentre Christopher Plummer lo rimpiazzò del tutto (letteralmente) come John Paul Getty.

La scena di Kevin Spacey ne L’uomo che disegnò Dio.

Spacey fu fatto uscire di scena, condannando, ora Billionaire Boys Club al tonfo commerciale, ora Gore – il biopic sullo scrittore, saggista e sceneggiatore Gore Vidal prodotto e distribuito da Netflix – all’oblio della non-distribuzione in attesa di tempi migliori. E alla fine è proprio L’uomo che disegnò Dio che offre all’ex-Keyser Söze, l’opportunità di tornare nel cinema che conta seppur in un piccolo – e catarticamente ironico – ruolo: un commissario di polizia che deve inchiodare un (presunto) molestatore. L’intuizione qui è del produttore, Louis Nero: «Abbiamo riscontrato molto interesse da parte degli acquirenti di tutto il mondo e tutte le controversie generate dal casting di Spacey sono state un bene per il film». Di parere più pacato invece l’altro Nero, Franco: «Sono molto felice che Kevin abbia accettato di partecipare al mio film, lo considero un grande attore…».

Franco Nero è Emanuele in un’altra scena.

E infatti, se è vero che il ruolo è piccolo – appena una manciata di pose e un minutaggio davvero scarso (solo Dunaway ne conta meno) – è Spacey a renderlo grande con il suo magnetismo recitativo di puro talento che fa rimpiangere come il focus del racconto non abbia virato immediatamente su di lui dal momento dell’ingresso. Poco male, Spacey è tornato e tanto basta per gli amanti del cinema. Anche perché dall’altra parte de L’uomo che disegnò Dio c’è un grande Nero con il suo Emanuele: «Una sorta di Samurai non-vedente, ma capace proprio per questo di vedere gli altri con un’immediatezza sovrannaturale, grazie al suo misterioso dono di ritrattista». Ed è questa la marcia in più di un racconto che poggia tutto sulle interpretazioni misurate dei suoi volti noti, da una Rocca intensa e affettuosa a un Davi inedito e istrionico.

Faye Dunaway, altro grande nome coinvolto nella pellicola.

Non ultimo uno spassoso Massimo Ranieri protagonista di uno dei momenti più riusciti del film. Il problema, o perlomeno, ciò che non funziona appieno ne L’uomo che disegnò Dio però, è quello che c’è intorno. Perché, pur essendo, per usare le parole di Nero: «Una commedia drammatica di denuncia su temi d’attualità quali l’integrazione multietnica (ma senza buonismi d’accatto), l’invadenza dei Social (senza pseudo-giustificazioni) ed il cinismo della TV-spazzatura (ma senza ipocrisie)» dal dichiarato spirito filmico riecheggiante nei temi e nei toni a capisaldi della storia del cinema come L’angelo azzurro, Quinto potere e La decima vittima, è la resa lacunosa, tra uno script zoppicante nel ritmo e nello sviluppo, dialoghi ricchi di buone intenzioni ma eccessivamente densi e retorici e una regia che, in fin dei conti, non offre particolari spunti né come costruzione d’immagine né come luci e atmosfere.

Franco Nero, Robert Davi e Isabel Ciammaglichella in una scena de L'uomo che disegnò Dio
Franco Nero, Robert Davi e Isabel Ciammaglichella

C’è però un bisogno forte in Nero – uno che ha preso parte a grandi pagine di cinema, da La Bibbia a Querelle de Brest passando per Django, Il giorno della civetta, Un tranquillo posto di campagna e Il mercenario, giusto per citarne alcuni – di raccontare cinema, di fare cinema, di prendere posizione attraverso un L’uomo che disegnò Dio, dal titolo così evocativo e poetico, che pur con tutti i suoi difetti strutturali ci ricorda l’importanza dei propri doni. O di come – per citare Edmund Burke – «la sola cosa necessaria affinché il male trionfi è che le brave persone non facciano niente». E quindi serve aprirsi, condividere, soprattutto in un mondo allo sbando per provare a smuovere le coscienze, meglio se attraverso il cinema.

  • OPINIONI | House of Cards 6 e l’assenza di Kevin Spacey
  • VIDEO | Qui sotto potete vedere il trailer del film: 

 

 

 

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