ROMA – C’è chi l’ha vissuto, chi l’ha sentito raccontare, chi lo ha persino studiato, animato da curiosità, attrazione o ossessione per il true crime. Tutti ne hanno sentito parlare e, come solito nelle vicende di cronaca nera italiana, tutti hanno presto preso una posizione. È il caso dell’omicidio di Yara Gambirasio, il cui inizio risale al 26 novembre del 2010 nell’apparente quiete cittadina di Brembate di Sopra (BG). La scomparsa della giovane ginnasta di tredici anni getta (ancora una volta) un’ombra oscura su tutta l’Italia. Il suo corpo viene ritrovato tre mesi più tardi, il 26 febbraio 2011, in un campo desolato vicino ad alcune industrie periferiche. Una tragedia che smuove, segna, spiazza e che lascia tutti sconvolti. E che adesso Netflix presenta sotto forma di docuserie in cinque episodi, Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio.

Ideata e diretta da Gianluca Neri, Il Caso Yara convince nei primi due episodi, in cui le meticolose disamine offrono un’attenta ma sintetica panoramica di ciò che è stato. Tra opinione pubblica e realtà, il lavoro svolto da Neri e dagli sceneggiatori Carlo G. Gabardini ed Elena Grillone ha forza e credibilità. È dal momento in cui assistiamo alla testimonianza di Massimo Bossetti, condannato in cassazione per l’omicidio di Yara, che la narrazione sembra incespicare, pur non volendolo. Il lavoro di documentazione di Neri, Gabardini e Grillone è quasi titanico: un’analisi di oltre 60.000 pagine di documenti e centinaia di gigabyte di materiale audiovisivo che fa sì che la serie si sviluppi lungo due linee temporali che offrono due prospettive distinte: quella della famiglia della vittima e quella di Bossetti che (repetita iuvant) dopo tre gradi di giudizio e la condanna all’ergastolo, si proclama ancora innocente.

Premessa a parte, la vicenda si slega sugli elementi che sono stati nel corso degli anni intricati e controversi: il massiccio prelievo di DNA, la ricerca del misterioso “Ignoto 1”, i legami familiari atipici e alternativi di Bossetti, la presunzione di colpevolezza mascherata da innocenza, gli amanti di Marita, la pista del cantiere, le indagini su Mohammed Fikri e l’ipotesi dell’insegnante di ginnastica o del custode del centro sportivo. Tutto sedimentato sempre dal riserbo della famiglia Gambirasio e da un atteggiamento ambivalente della comunità bergamasca, divisa tra reticenza e solidarietà. Uno scenario che sembra trovare la sua conclusione nelle lacrime stesse del colpevole, Bossetti, operaio edile privo di qualità appariscenti e spesso abbronzato artificialmente. In questo ritorna la bravura di Neri, che in Il Caso Yara utilizza un approccio visivo e di montaggio che alterna interviste a testimoni, esperti, giornalisti, familiari e al condannato con materiali di repertorio, servizi giornalistici e filmati processuali.

Senza lasciar spazio alla distrazione, Neri riesce a trasmettere il senso di ingiustizia (c’è?) e perdita che permea il fatto di cronaca, inciampando però qui e lì nel melodrammatico o in una retorica sentimentale che non stimola. La volontà di offrire agli spettatori gli strumenti per formulare un proprio giudizio, con un risultato non perfetto ma credibile. O quantomeno interessante. Il Caso Yara non risparmia i dettagli più crudi e la scelta di una narrazione così diretta impatta inevitabilmente sulla sensibilità di chi sceglie di seguirne gli sviluppi. Sono le immagini e le dichiarazioni a parlare, sostenute da un montaggio, anche sonoro, pesante e asfissiante quanto il materiale trattato. Sempre dopo, però, una delicatezza e un rispetto nei confronti della vittima. Fondamentali, specialmente alla luce del dolore che ne è derivato e potrebbe derivarne ancora.
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