ROMA – Durante una festa di compleanno in casa, un trucco di magia va storto e il padre di una modesta famiglia egiziana – un uomo autoritario e brutale – viene trasformato in un pollo. Da quel preciso momento, una valanga di assurde coincidenze si susseguono per tutti. La madre, la cui vita quotidiana era dedicata a marito e ai figli, è costretta a prendere in mano la situazione e ad uscire allo scoperto. Questa la sinossi de Il capofamiglia, opera prima del regista egiziano Omar El Zohairy dopo i cortometraggi Breathe Out e The Aftermath of the Inauguration of the Public Toilet at Kilometre 375, nonché primo film egiziano a competere nella Cinéfondation al Festival di Cannes.
Dopo aver stregato la critica internazionale e aver vinto numerosi premi tra cui Miglior film alla Semaine de la Critique di Cannes e il Gran premio della Giuria al Torino Film Festival nel 2021, Il capofamiglia, con protagonisti Demyana Nassar, Samy Bassiouny, Fady Mina Fawzy, Abo Sefen Nabil Wesa e Mohamed Abd El Hady arriva finalmente nei cinema italiani grazie alla sempre attenta Wanted Cinema che ha il merito di mirare altrove, con visioni scomode in tempi allineati e comodi come questi.
Un’opera preziosa, non fosse altro per le dichiarate intenzioni di El Zohairy: «Registi come Robert Bresson, Jacques Tati e Aki Kaurismäki mi hanno ispirato per questo film. È strutturato come fosse un poema, tramite il quale ho cercato di far percepire al pubblico l’essenza delle nostre vite». Ovvero? Una società come quella dell’Egitto patriarcale pesantemente discriminatoria nei confronti della donna, limitante della sua emancipazione, in particolare – nel caso dell’originale finzione scenica orchestrata da El Zohairy – della sua protagonista senza nome. Lei, l‘esordiente Demyana Nassar, intensa, silenziosa, in perenne sottrazione emotiva, è uno dei motivi per cui vedere il film, avvolta intorno a una narrazione surreale, kafkiana (l’influenza de Le Metamorfosi è evidente), tremendamente originale.
«Il capofamiglia è la storia di un uomo che si trasforma in un pollo, in tutto e per tutto, non è né un gioco né una cospirazione», dice El Zohairy al riguardo. Per un film che nel suo sviluppo narrativo dal ritmo cadenzato, appassionato, quasi a costruire ogni immagine di rigore e geometrie registiche fatte di odori, sapori e suoni tipicamente egiziani, utilizza diversi generi e toni per poi compattarsi in una dramedy sociale che evoca a tratti il cinema eccellente di Elia Suleiman con spruzzate generose de Il Maestro e Margherita di Mikhail Bulgakov nel mix di elementi soprannaturali, black comedy e violenza verbale (e di intenti) sullo sfondo della criticità del sottotesto sociale.
In tal senso, se da una parte Il capofamiglia riesce a gestire i luoghi aridi e polverosi, fatiscenti, di un contesto che vede i suoi abitanti muoversi come non-morti e la musica e il (paradossale) tono allegro dell’Egitto, bilanciandoli di un forte e lucido contrasto filmico rievocativo di Cairo Station di Youssef Chahine del 1958, dall’altra, però, sembra quasi girare a vuoto nel dover poi serrare le fila di una trovata tanto geniale nell’intuizione quanto problematica nello sviluppo. Ed ecco quindi la rinascita, la nuova forma, una nuova carne, così da condannare i protagonisti a un loop di vita dal paradigma culturale tradizionale inscalfibile che solo una grande rivoluzione sociale, forse, potrà spazzare via del tutto.
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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