ROMA – Alla fine del XIX Secolo, Lucas, un giovane prete luterano danese, raggiunge una remota regione dell’Islanda per costruire una chiesa e fotografare i suoi abitanti. Ma più si addentra in quel paesaggio spietato, più si allontana dal suo obiettivo, dalla sua missione e dai suoi principi morali. Questa la sinossi di Godland – Nella terra di Dio, terzo lungometraggio del regista islandese Hlynur Pálmason dopo Vinterbrødre e quel A White, White Day – Segreti nella nebbia candidato islandese agli Oscar 2020. Con protagonisti Elliott Crosset Hove, Ingvar Eggert Sigurðsson e Hilmar Guðjónsson Godland arriva ora al cinema grazie alla distribuzione della sempre attenta Movies Inspired per un inizio d’anno col botto.
Perché Godland è davvero un’opera sopraffina e non solo perché fiore all’occhiello della sezione Un Certain Regard dello scorso Un Certain Regard di Cannes che, accanto al vincitore Les Pires di Lise Akora e Romane Gueret, ha visto emergere Il corsetto dell’Imperatrice di Marie Kreutzer (di cui potete leggere qui) come uno dei film più interessanti della scorsa stagione – senza dimenticare il concorso ufficiale dei EO di Jerzy Skolimowski e Close di Lukas Dhont – ma anche per le ispirazioni eccellenti alla base. Come il titolo, ad esempio, che tra origine da VOLAÐA LAND del poeta islandese Matthías Jochumsson che studiò per anni in Danimarca per poi ritornare successivamente con la sua famiglia in Islanda: un poema d’odio contro la sua terra natia dopo avervi trascorso un inverno terribile.
Aspramente criticato in patria, Jochumsson fu obbligato a scrivere una contro-poesia in cui si trovò costretto ad elogiare la bellezza e le meraviglie del suo Paese, qualcosa che ha stuzzicato la curiosità di Pálmason tanto da pensare subito: «Forse il prossimo film che realizzerò dopo Godland dovrà essere una sorta di contro-poesia a questa pellicola, in cui ci mi farò trasportare dal nazionalismo. La cosa buffa è che mentre facevo le ricerche per questo film ho scoperto che il mio bis-bisnonno, a un certo punto della sua vita, prese in gestione la terra di Jockumson e si dice che i due fossero diventati amici…».
Alla base del concept di Godland – come dichiarato dal disclaimer in apertura di racconto – una raccolta di lastre bagnate dall’Islanda rurale scattate da un prete alla fine dell’Ottocento. Da qui Pàlmason intesse immagini dalla costruzione registica rigorosa e attenta declinate in un raffinato 4:3. Una scelta tutt’altro che meramente artistica, piuttosto da intendersi funzionale nel settare uno straniante senso claustrofobico che genera contrasto con la poetica bellezza di un’Islanda vivida e selvaggia. Per un Pàlmason che non spreca mai un’inquadratura, la tiene, la aspetta, la culla, lasciando che la sua terra respiri in un silenzio (in)naturale fatto del calore e della vita dei suoi abitanti.
Concetto quest’ultimo su cui Pàlmason ha spiegato: «Godland parla dell’umanità e della natura e di come questi due estremi collidano, attraverso l’uomo, gli animali e il mondo che ci circonda». Nel mezzo c’è il viaggio narrativo di Lucas che, nel crescere della disillusione verso l’operato di Dio e la progressiva abitudine al suo silenzio e all’assenza di risposte, vede gradualmente mutarvi l’inerzia da una missione evangelica di speranza e pace civilizzata a una conversione dello stesso frutto della ricerca del suo posto nel mondo: «Questo film parla anche di un viaggio nell’ambizione, nell’amore, nella fede e nel timore di Dio ma anche del bisogno e della volontà di trovare il proprio posto, di essere visti e di far parte di qualcosa».
A cambiare, in tal senso, è l’atteggiamento di Lucas nei confronti della Fede e in Dio («Devi dimenticare te stesso per servire Dio», recita una linea dialogica) la cui crisi mistica d’illuminazione terrena degna del miglior Bergman de Luci d’inverno (di cui potete leggere qui il nostro Longform) vede infine Lucas riappropriarsi della propria identità umana in una personalizzazione che è aprirsi alla vita, all’amore, al sudore e al lasciare briglia sciolta alle proprie pulsioni fatte di esplosioni di violenza e morte – quest’ultimo topos cardine del giovane-e-maturo cinema di Pàlmason – che trova nel poetico e spaziante climax il suo inesorabile punto d’arrivo. Ma non solo narrativo, come confessa il regista: «La morte? Potrebbe essere l’unica cosa che ci accomuna. È questo il nucleo di Godland, il suo cuore pulsante…». Non perdetelo.
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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