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E.T. l’Extra-Terrestre | Spielberg, l’empatia e la genesi di una favola senza tempo

Drew Barrymore, l’abbaglio della Paramount e quell’amico immaginario: storia di un capolavoro

E.T. l'Extra-Terreste
E.T. l'Extra-Terreste

ROMA – 1978. Quell’idea, a Steven Spielberg, gli ronzava in testa da un po’. Forse perché se affronti il divorzio dei tuoi genitori a quattordici anni, difficilmente ne esci indenne. E, (in)consciamente, vai a cercare un appiglio, una tenda in cui rifugiarti. Oppure un amico a cui raccontare tutte le tue paure. Reale o immaginario? Fa poca differenza, se riesce ad aiutarti in un momento capace di segnare la tua vita e le tue aspirazioni. Così, durante tre set fondamentali che segnarono un folgorante inizio di carriera – 1941: Allarme a Hollywood, Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo e I Predatori dell’Arca Perduta – Spielberg teneva ben impresso il ricordo di un alieno che, nel 1960, lo accompagnò durante un periodo buio. L’intento era chiaro: dedicargli un film, raccontare un’amicizia impossibile, rendere finalmente reale E.T., quell’extra-terreste dagli occhi grandi e dal cuore buono.

Steven Spielberg e il piccolo E.T.
Steven Spielberg e il piccolo E.T.

Lo sappiamo tutti: quel film, uscito nel 1982, è più di un cult, più di un film memorabile. Come disse Roger Ebert, uno dei grandi critici cinematografici della storia, «Questo non è semplicemente un buon film. È uno di quei film che spazzano via i nostri timori e conquistano il nostro cuore». E, forse, non c’è tagline più appropriata. Poiché Steven Spielberg, con E.T., è riuscito a tramutare per immagini leggendarie un background di sogni, di ansie, di bellezza che, chiunque, ha attraversato negli anni della formazione. E pensare che, il film, prima di diventare quello che conosciamo, ha avuto una gestazione piuttosto complicata: prima doveva chiamarsi Growing Up, film autobiografico, poi divenne Night Skies. Quella bozza, pero, non lo convinceva, gli alieni erano inquietanti e niente affatto rassicuranti. Dunque, insieme alla sceneggiatrice Melissa Mathison, stravolsero la storia e partirono dal finale: un aliene viene lasciato per errore sulla Terra.

Henry Thomas, l'iconico fiore e Spielberg
Henry Thomas, l’iconico fiore e Spielberg

Il copione di Night Skies fu riscritto, si basò su una prima idea di Spielberg (titolo? E.T. and Me…) e, nei concetti, doveva esserci una preponderante dose di affetto, amore e malinconia. L’alieno, disegnato poi da Carlo Rambaldi, doveva somigliare ad una tartaruga rugosa, possibilmente senza guscio, rifacendosi al profilo di Albert Einstein ed Hemingway. Ne vennero costruiti tre, dopo diverse prove. All’interno, si alternarono due nani e Matthew De Meritt, un dodicenne nato senza arti inferiori. Otto settimane di scrittura e il copione fu completato. E allora, una volta sul tavolo della Columbia Pictures, l’abbaglio imperdonabile: la Major definì Night Skies alias E.T., letteralmente, “uno stupido film di Walt Disney”. Se, ancora oggi, il rammarico è enorme da parte della Columbia per l’occasione sprecata, alla Universal il progetto di Spielberg piacque, e molto. Il via libera era partito: E.T. sarebbe tornato, finalmente, a casa.

E.T.
Spielberg e una piccola Drew Barrymore

Per i ruoli, Spielberg fece oltre di trecento provini, tra ragazze e ragazzi. Ma no, Elliot e Gertie non si riuscivano proprio a trovare. Almeno fin quando non conobbe Drew Barrymore sul set di Poltergeist. Quello sguardo, il suo sorriso adorabile (ma impertinente) e l’essere frontman di una gruppo punk (!), potevano fare al caso suo. Scritturata. Dopo, arrivo anche Henry Thomas: in sede di provino non convinse subito il regista, ma quando, provando una scena (quella in cui l’extra-terrestre viene catturato dal governo), riuscì a piangere a dirotto (ricordando, purtroppo, il cane deceduto anni prima), Spielberg rimase profondamente colpito. Quel bambino sarebbe diventato Elliot, l’estensione perfetta dell’immaginario di un filmmaker che, da sempre, ha fatto dell’empatia un moto narrativo capace di riscrivere il corso della New Hollywood.

E.T., il backstage
Verso casa

Le riprese si svolsero a Los Angeles, durarono due mesi e vi prese parte anche Harrison Ford in un cameo poi tagliato in fase di montaggio. Il set, blindato, era accessibile solo tramite un pass e il titolo di lavorazione, per sviare l’attenzione, fu un generico A Boy’s Life. Fu girato prettamente in ordine cronologico (“questo ha aiutato i ragazzi a livello emotivo”, raccontò Spielberg), con la troupe che si spostava tra le casette basse della tipica provincia americana: Northridge, Crescent City e Tujunga, nel quale ancora esiste la casa di Elliot (oggi meta cine-turistica) al 7121 Lonzo St a Tujunga, California. Altra cosa importante, per mantenere viva l’emozione, la parola d’ordine sul set era “improvvisazione”. Tutto doveva apparire più vero possibile: niente marionette, niente storyboard e un copione utilizzato solo come traccia. Perché poi, una bicicletta, la luna e la musica di John Williams avrebbero fatto il resto. Capolavoro.

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