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Enrico Borello: «Settembre, quel sogno e l’arte di essere un attore»

Il set con Giulia Steigerwalt, la trap di Lovely Boy ma anche il futuro del (grande) cinema italiano

Enrico Borello, e l'arte di essere un attore
Enrico Borello, e l'arte di essere un attore

ROMA – C’è un vento nuovo che tira forte sul cinema italiano. Un vento soffiato dalla nuova generazione d’interpreti. Attori e attrici; artisti e volti appassionati. Colti, preparati, sinceri. Sono il presente e l’immediato futuro della nostra industria cinematografica. Facce e occhi esportabili (e non è cosa da poco), vogliosi di condividere con il pubblico l’arte più emozionante. Tra loro, in questa ricca schiera, c’è sicuramente Enrico Borello che, dopo Lovely Boy di Francesco Lettieri, è protagonista di Settembre (un consiglio? Non perdetelo!), diretto e scritto da Giulia Louise Steigerwalt, con cui condivide il personaggio di Matteo insieme a Tesa Litvan e Fabrizio Bentivolgio (ma nel film trovate anche Barbara Ronchi e Thony). «Ho letto il copione di Settembre tutto d’un fiato», ci dice Enrico al telefono, mentre in sottofondo si sentono i clacson che fanno da soundtrack al Lungotevere nei pomeriggi romani, «Una sceneggiatura che mi ha commosso profondamente, e quando poi ho girato avevo tutto molto chiaro. È praticamente il mio esordio da attore protagonista, ed è stato bello condividerlo con un altro esordio, quello di Giulia, una regista che sa davvero ascoltare e indirizzare gli attori».

Enrico Borello e Tesa Litvan in Settembre
Enrico Borello e Tesa Litvan in Settembre

Enrico, il film è pieno di emozioni. Cosa hai provato dopo aver letto il copione?
«In realtà ho approcciato al provino in modo, diciamo, ingenuo. Perché? L’assetto del personaggio, appunto, aveva delle sfumature ingenue. Poi sono arrivate delle suggestioni, e quando ho letto la sceneggiatura la prima volta, insieme a Tesa Litvan, con cui condivido molte scene, ho avuto l’insieme di tutto ed è sono molto emozionante. Ogni cosa che ti trasporta poi ti spinge ad immaginarla con il tuo sguardo. Mi ha commosso, e ricordo di averla divorata in una serata. Cosa che invece con Lovely Boy non è successa, lì mi sono preso del tempo leggendola. E invece Settembre è stata una folgorazione».

Praticamente un esordio, che coincide con l’esordio di Giulia Steigerwalt alla regia. Curioso incrocio.
«Ti dirò, mentre giravamo ero molto carico: avevo chiaro quello che stavo facendo. Cerco sempre di trovare qualcosa di nascosto, che abbia una prospettiva. E quindi cerco la vita di quella persona che poi metto in scena. Mi faccio carico di una sorta di umanità, cerco di viverla e poi restituirla. Allo stesso tempo anche Giulia era pratica ed esperta: entrambi avevamo contenuti forti da voler esprimere. Lei mi suggeriva come vedere il personaggio, e mi sono totalmente affidato alla sua visione. Giulia accoglie, è generosa ed efficace nel dirigere un attore. E quindi segui le indicazioni con estrema serenità. È importate saper accogliere e condividere. Saper contaminarsi. E con Giulia la contaminazione è quasi spontanea, ho capito quanto è importante ricevere dall’esterno».

La scena la condividi con Tesa Litvan, anche lei praticamente all’esordio ma decisamente brava.
«Con Tesa è andata benissimo: è Croata, e parla inglese molto bene. Quando abbiamo girato, inizialmente, non parlavo benissimo l’inglese e osservarla per me era molto importante. Dovevo capire cosa succedesse in lei, comprendendo certezze e incertezze. Ci siamo scambiati degli sguardi, cosa che sui set succede raramente, e c’è stata una connessione forte. Un momento, in particolare: una scena notturna, e nonostante il freddo ci siamo connessi in modo marcato. È stato bellissimo ricreare questi contatti»

Enrico, tu fai parte di una generazione di meravigliosi attori. Ecco, come fate ad essere così bravi?
«Ci sono attori e attori, approcci e approcci. Chiaro, parlo per me: non mi reputo bravo quanto invece vorrei esserlo. Per me è sempre una ricerca continua, e rispetto al cinema in generale ho un grande amore e penso sia un veicolo enorme di cultura. Sono convinto che il cinema influenza molto, è uno spazio in cui poter ritrovare l’energia che abbiamo dentro di noi. Lo dico anche da spettatore: quante volte abbiamo goduto dell’energia di un personaggio prendendo ispirazione? E quindi non recito per tornaconto personale, bensì come atto politico e sociale. Cerco di parlare per conto di persone che magari non possono parlare. E per Settembre ho dovuto credere in qualcosa in cui è difficile credere, ossia l’amore. L’amore è qualcosa di complicato, faticoso. E il finale del film da speranza. Dunque: perché siamo così forti? Perché ci crediamo tanto. E crediamo nel cinema italiano».

Enrico Borello, in primo piano, in un posato dal set di Lovely Boy. Dietro Andrea Carpenzano
Enrico Borello, in primo piano, in un posato dal set di Lovely Boy. Dietro Andrea Carpenzano

Cinema italiano che nel 2021 ha sfornato grandi film da grandi autori: Sorrentino, Mario Martone, i Fratelli d’Innocenzo, Gabriele Mainetti. Come intendi tu il cinema italiano?
«Siamo attaccati alle idee, e scardinarle potrebbe portare una rivoluzione. Penso a Lovely Boy e la trap. La trap non è stata ancora capita, eppure le cose che non vengono capite sono sempre ottime e necessarie. Penso ai D’Innocenzo, che hanno tante cose da dire. Oppure Martone, non è di nuova generazione, ma è comunque innovativo, sempre. Sorrentino? Ho amato i suoi primissimi film e con È Stata la Mano di Dio ha in parte cambiato stile, e questo è un capolavoro: raffinatezza poetica assoluta. Un’altezza artistica mai vista prima».

Ma Enrico Borello quando ha capito che avrebbe voluto fare l’attore?
«C’è stato un momento d’impatto: ho fatto un sogno, e la mattina dopo ho detto: “tu devi fare il cinema”, nonostante facessi già dei corsi e dei workshop. Ho smarcato dei modelli che mi erano forse stati imposti, e fare la scelta di essere tante cose è stata come riconoscere un’occasione. Poi ho avuto fortuna, potendo portare in scena istinti e visione del mondo, e condividere e lasciare qualcosa su cui ragionare. Per fare questo bisogna mettersi a nudo e misurarsi con sé stessi. È un lavoro costante, si va per errori e bisogna sempre sbagliare, anche in scena».

Ultima cosa: c’è un film non troppo conosciuto che ci consigli?
«Domanda difficile! Ti dico Gatto Nero Gatto Bianco di Kusturica. Oppure Una Vita Difficile di Dino Risi. Sono molto legato alla storia italiana».

L’intervista a Giulia Steigerwalt, Margherita Rebeggiani, Luca Nozzoli:

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