MILANO – Quella di Dino Meneghin è una storia da tramandare di generazione in generazione, perché è una storia pulitissima di sport, distillato di talento, dedizione alla causa e forza fisica che si tramuta anche in forza morale. È la storia dello sportivo italiano più titolato di sempre, del monumento umano attorno al quale la pallacanestro – da sport di second’ordine in Italia – si è fatta leggenda. Ora questa vicenda è diventata Storia di una leggenda, un documentario breve (55 minuti) ma intenso – presentato al 9° Festival Internazionale del Documentario Visioni dal Mondo di Milano – con la regia di Samuele Rossi, che colma il colpevole vuoto di non aver mai raccontato da vicino l’icona del basket italiano per eccellenza. «Ho vinto tutto e per tanto tempo…». Così si apre il film, dentro un palazzetto sportivo con gli spalti vuoti e la sua voce. Profonda e inconfondibile.
Una carriera iniziata per caso – il padre da Belluno si era spostato a Varese per lavoro – in una pallacanestro dominata da Milano e Bologna, ma che essendo uno sport sostanzialmente provinciale lasciava un margine economicamente abbordabile per i nuovi progetti. Bastava garantire tremila spettatori a settimana e – con un discreto sponsor e un buon talent scout – si poteva puntare alle vetta. E così fece con la Pallacanestro Varese la famiglia Borghi, già proprietaria del marchio di elettrodomestici Ignis, che per un decennio (’68-’78) trasformò la cittadina lombarda nel punto di riferimento del basket italiano, con sette scudetti (e tre secondi posti), dieci finali di Coppa dei Campioni (cinque vinte), una Coppa Intercontinentale e tanto altro. Il pivot di questa squadra? Lui: Dino Meneghin, due metri e quattro centimetri, di lì a poco divinità assoluta del basket europeo.
Gli anni di Meneghin a Varese rappresentano la storia dell’americanizzazione della pallacanestro italiana che attraverso allenatori come Sandro Gamba – già vice degli acerrimi avversari-nemici milanesi, trasferitosi dal 1973 alla corte dei Borghi varesotti – ha portato la cultura NBA (che proprio in quegli anni surclassava la ABA, affermandosi come principale lega di basket statunitense) sia nello stile di gioco, sia in quello di allenamento, in un’Italia dove la tecnologia più diffusa era quella di fare fiato e gamba facendo su-e-giù i gradini del palazzetto. E fu così che negli anni Settanta gli italian non si interessavano troppo dei fuoriclasse americani Moses Malone, Julius Erving e Thompson. Perché? Perché guardavano Meneghin, il miracolo italiano. E a questo punto, il documentario racconta come la carriera di un giocatore possa declinare, terminare, oppure divenire leggenda.
La parabola di Meneghin, con il passaggio agli anni Ottanta, segue quest’ultimo destino: tra infortuni (nove operazioni totali), alti e bassi e il trasferimento al fianco di Mike D’Antoni nella storica Milano di Dan Peterson, la carriera di SuperDino si completa come tutti sanno (ma in pochi avevano previsto), con ulteriori scudetti, altre due Coppe dei Campioni, il ritiro nel 1994 e l’incoronazione definitiva con l’ingresso nella iperselettiva Naismith Memorial Basketball Hall of Fame, ovvero la maggior onorificenza possibile per un giocatore di basket. Grazie a Meneghin, del resto, il basket in Italia anno dopo anno diventò fenomeno nazionale, mentre più o meno contemporaneamente Larry Bird e Magic Johnson conquistavano le copertine e il mondo. Così, tra una partita e l’altra – in questo senso nel documentario è molto emozionante la ricostruzione della finale di Coppa dei Campioni del 1987 contro il Maccabi Tel Aviv – e tra un racconto e l’altro emerge un uomo normale, come tanti, che ha dato tutto alla pallacanestro rimettendoci anche la famiglia.
Dietro di lui un Paese, l’Italia, che con lui ha provato perfino a confrontarsi con il mondo da gigante, per la prima volta in questo sport, e come dimenticare la vittoria contro l’URSS, in casa loro, alle Olimpiadi di Mosca del 1980?. Il documentario di Rossi rende omaggio ad un grande campione e qua e là ci fa intravedere e immaginare un’Italia di mezzo in cui i giganti del basket girano per le strade della città parlando con i tifosi e in cui i primi tifosi sono i dipendenti della fabbrica che sponsorizza la squadra. Curioso che questo lavoro esca in coda alla bella docu-serie Scugnizzi per sempre: da un alto perché l’esperienza della Caserta raccontata nella serie ricalca, dieci anni dopo, alcune dinamiche dell’impresa compiuta da Varese; dall’altro, perché gli scugnizzi casertani che sfidarono l’Olimpo (e l’Olimpia) del basket, si trovarono di fronte proprio la Milano del mostro sacro Meneghin.
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