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Diego Armando Maradona e l’impossibilità di replicare il mito al cinema

Oltre i film, dentro la leggenda: Maradona era già cinema, per questo nessuno riuscì a farne un film

Diego Armando Maradona in una rivisitazione grafica.

MILANO – Quando ancora era in vita, il cinema ci aveva provato più volte ad affacciarsi su di lui, ma il mito era talmente enorme che non ammetteva riletture. Il motivo? Molto semplice: la sceneggiatura della vita di Diego Armando Maradona era già talmente perfetta da non poter comprendere altro, da non capire nemmeno eventuali rivisitazioni. Perché Maradona era già un film da Oscar, puro cinema, la sua esistenza stessa un blockbuster epico, con l’eroe povero che attraversa la sua esistenza fino ad arrivare alla cima. La periferia e la gloria, la polvere e l’erba, prima di tornare al punto più basso dell’esperienza, sempre vivendo e pagando tutto in prima persona, con la storia dietro di lui che appariva e scompariva, tra le Malvinas (mai Falkland!) e il maldito Videla, Castro, Bush e la Thatcher.

Un murales di Maradona per le strade di Napoli.

Il calcio è uno sport difficile da portare al cinema perché toglie spontaneità al gesto. Così, rinchiudere Maradona dentro la finzione, nonostante qualche tentativo (Marco Risi e un grande Marco Leonardi in Maradona – La mano de Dios), fu sempre impossibile, per questo poi si tentò di definirlo con i documentari (Emir Kusturica, Asif Kapedia, anche Maradonapoli) riuscendoci solo in parte perché come si può superare quel livello d’epica? Come si può rifilmare una serie di immagini degne del miglior Sergio Leone? L’intervista di lui ragazzino sui campi di terra a Lanús, la rissa a Barcellona, le foto in campo con Troisi e quella mano beffarda agitata sopra la testa di Peter Shilton in Messico, con una consapevolezza sempre totale in tutto quello che faceva e che diceva.

Un murales di Maradona a Buenos Aires.

Perfino Paolo Sorrentino, oltre a ringraziarlo dal palco degli Oscar, lo mise in un film, Youth, rivisto da Roly Serrano: indimenticabile la scena di lui con le palline da tennis nel campo (qui), attratto da qualsiasi cosa avesse forma sferica. Nonostante l’ossigeno. Nonostante il peso. Nonostante la vita. Finì anche nel titolo di un (bel) film italiano, Santa Maradona, di Marco Ponti dalla canzone dei Mano Negra, poi ci provò il cinema argentino a far volare Diego sullo schermo, vedi El día que Maradona conoció a Gardel, in cui nel 1996 Rodolfo Pagliere immaginava addirittura l’incontro tra due icone argentine come Maradona e il Zorzal Gardel, cantante supremo di tango, ma anche lì poi si ripiegò su un documentario come Amando a Maradona, mai uscito in Italia, in cui si cercava di filmarne la vita per capire. Ultima arrivata, la serie di Prime Video, Maradona: Sogno Benedetto, interessante, certo non necessaria.

Il poster di Amando A Maradona, documentario argentino.

Capire, ecco, forse questo è l’errore: non c’è mai stato niente da capire. Diego Armando Maradona era lì, bastava guardarlo ed era già cinema. Lo stadio il suo teatro. Il suo cinema. Quando si riscaldava, quando partiva palla al piede, quando lanciava in aria il pallone, quando si inventava uno dei suoi giochi (ascoltare la meraviglia di Zidane per credere e capire, qui). Era già tutto lì, neorealismo del fútbol, la storia dell’uomo che volle farsi re – per citare altro grande cinema – di un giocatore che seppe nutrire l’immaginario collettivo al punto di essere morto, ma immortale. Un eterno figlio della periferia mai diventato ricco perché, come direbbe Gabriel García Márquez, rimase sempre «un povero con molti soldi», un ragazzo che anche ormai adulto ascoltava Manu Chao in quel frammento di cinema, quello sì, Maradona by Kusturica di Emir Kusturica e sentiva attento quelle parole, mai così vere come questa volta: «Si yo fuera Maradona viviría como él, porque el mundo es una bola que se vive a flor de piel»...

  • VIDEO | Quando Manu Chao cantò per Maradona diretto da Kusturica:

 

 

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