I registi amano sviscerare i dettagli di ogni scelta, dalla posizione di un certo oggetto nella stanza, alla pausa di silenzio nello stacco di una battuta. David Cronenberg no, anzi. Si annoia facilmente a vivisezionare le sue pellicole e preferisce parlare d’altro. Anche quando si trova a #Venezia75 per essere insignito del Leone d’Oro alla Carriera. Potrebbe trincerarsi dietro uno studiato intellettualismo ma, invece, invita il pubblico a casa sua (con tanto d’indirizzo: 31 Park Avenue, Toronto) per vedere i film su Netflix – che secondo Variety lo ha ingaggiato per realizzarne uno. Guarda avanti, come i veri geni visionari sanno fare, e stupisce con un’ironia eccezionale. La parola d’ordine che ha scelto per la masterclass è “rottura”. Non potrebbe essere più appropriata, visto che a lui gli schemi stanno proprio stretti. Tanto che sta già annunciando la morte della sala cinematografica…
IL FUTURO «Se mi proponessero di vedere Lawrence d’Arabia su un Apple Watch ne sarei intrigato. Sarebbe un’esperienza interessante, anche se diversa. Capisco le remore del Festival di Cannes verso Netflix perché sono legate alle regole francesi per cui si deve aspettare tre anni per vedere altrove un film uscito in sala. Io non ci sto. So che c’è gente che conserva i vinili e usa ancora la macchina da scrivere, ma io non vado al cinema da anni, ho un bel Panasonic da 50 pollici al plasma e mi piace molto. Ho provato a vedere La Forma dell’Acqua prima in casa e poi su grande schermo e sai una cosa? Meglio la prima opzione…»
LE SERIE TV «Una sceneggiatura non è una forma di letteratura, perché si bassa solo su dialoghi convincenti a prescindere dalle descrizioni. Prendi American Pastoral: non puoi mettere nel film venti pagine di discussione, come presenti nel libro. Questo lusso te lo concede solo la tv: dedichi al fatto un intero episodio e va benissimo. Quindi fanno bene Spike Lee o Refn che si sono dati alla serialità. Peraltro puoi creare un telefilm ma dirigerne solo due episodi, come per The Americans che ha un gruppo di dieci sceneggiatori e quindi registi senza perdere un grammo di coerenza».
LA TECNOLOGIA «Sono nato in una casa senza tv, dove la radio la faceva da padrona… Che peccato che si stia estinguendo! Ma sono per l’avanzamento della tecnologia e raramente mi metto a struggermi per la fine di un’era. Molti colleghi soffrono perché non si usa più la pellicola, per me è frustrante, come fare la foto ad un dipinto, in questo caso il negativo, senza vedere mai l’originale. Il digitale invece scardina il progetto stesso di originale e permette di montare e rimontare in tempo reale qualsiasi cambiamento, risparmiandoci la fatica».
CRASH «Cosa ricordo del film? A parte che non ha vinto l’Oscar pur meritandoselo, direi che mi è rimasta in mente soprattutto la questione della censura in alcuni posti, come in Norvegia. Ma non è un fenomeno nuovo: mi immagino nei tempi antichi il divieto di ammettere certi tipi di statue in alcuni ambienti. L’arte rompe gli schemi sociali com’è giusto che sia. Aveva ragione l’allora direttore del Festival di Cannes che l’ha messo nel bel mezzo della programmazione per far scoppiare una bomba, come diceva lui. Beh, ci è riuscito ed è stato uno dei momenti più divertenti della mia carriera».
FELLINI «Quando ero piccolo andavo al cinema di sabato, con gli altri bambini e senza i genitori perché all’epoca non si temevano omicidi né rapimenti. Di solito vedevano cartoon o western, ma un giorno ho visto che dall’altro lato della strada, dove oggi sorge Little Italy, c’era un piccolo cinema che proiettava solo pellicole in lingua italiana. La gente usciva piangendo, gente adulta, intendo, e io non capivo come potessero singhiozzare uscendo da un luogo di divertimento. Mi sono avvicinato e ho letto il nome del film, La strada di Fellini. In quel momento ho capito che il cinema è arte».
- David Cronenberg, il suo cyber-cinema e l’omaggio di Venezia 75
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