Finalmente Spike Lee. Nel bene e nel male, nella furia e nella gloria. Dall’abbraccio con il compare Samuel L. Jackson al «Next Questions», sorseggiando champagne, quando in conferenza stampa gli domandano cosa pensi davvero di Green Book e della statuetta come miglior film. Perché, il regista di BlacKkKlansman, arrivato al Dolby Theatre in un completo purple, omaggiando un altro e indimenticabile amico che si chiamava Prince, quando Jim Burke, Charles B. Wessler, Brian Currie, Peter Farrelly e Nick Vallelonga sono saliti sul palco per ritirare il premio, si è acceso come se stesse tifando per i suoi New York Knicks al Madison Square Garden.
Indignato, arrabbiato, furioso, lo hanno fermato e (provato) a calmare mentre abbandonava la platea prima della fine della cerimonia. Spiegando dopo «il sesto bicchiere», che «ogni volta che c’è qualcuno che guida, io perdo», citando la sconfitta del 1990, quando Fa’ La Cosa Giusta fu battuto da A Spasso con Daisy.Il motivo della sfuriata, nonostante il meritato Oscar per la sceneggiatura non originale a BlacKkKlansman, ritirato con Charlie Wachtel, David Rabinowitz e Kevin Willmott, è riconducibile alla polemica collegata ad una visione eccessivamente stereotipata che Green Book ha della comunità afroamericana.
Per non parlare dell’altra diatriba legata a Nick Vallelonga che, in un tweet di qualche anno fa, taggava Donald Trump attaccando la comunità musulmana di Jersey City. Cinguettio prontamente cancellato ma, sì sa, il web che sotterra non dimentica (mai) ed è sempre pronto a liberare ingombranti scheletri dall’armadio. Ma, se non c’è Oscar senza discussione, la partita di basket di Spike Lee ha, comunque, il sapore della rivincita. Al netto di una Shallow a cuore aperto tra Lady Gaga e Bradley Cooper, l’altro momento più alto è stata proprio la sua premiazione.
Allora, mentre Samuel L. Jackson gli dice che ha vinto, e che i suoi Knicks ce l’hanno fatta contro San Antonio dopo una drammatica striscia di diciotto sconfitte in casa, il paragone si fa forte ed emozionante. Ed eccolo tornare idealmente nel tempio sportivo, alla fermata di Penn Station. «Pensavo di essere in prima fila al Garden, ma l’arbitro ha fatto una cattiva chiamata», confida, sempre a proposito di quelle scelte dell’Academy che non riescono ad andargli giù. Non ci sta, Shelton Jackson Lee, nato ad Atlanta e sbocciato ad Harlem, guardando dritto in camera e riscrivendo le leggi del cinema con Fa la cosa giusta.
E, dunque, il discorso sul palco, prima di tutto e più di tutto, è un brano hip hop, capace di campionare il vecchio e il nuovo. Di quelli da ascoltare rigorosamente a stereo libero: «Rendo lode ai nostri antenati, che hanno contribuito a costruire questo Paese», ha detto Lee, con l’Oscar in mano, piegato in avanti, come se stesse guardando negli occhi l’intera Academy. E poi, ecco arrivare il rimando politico, la promessa da mantenere alle prossime elezioni: «Bisogna essere dalla parte giusta della storia, facendo una scelta morale tra amore e odio. Il 2020 è alle porte».
Obiettivo fissato, parole utili perché l’oscurità non abbia la meglio sulla luce. Amore e odio, diceva nello speech, mentre indossava le due parole sulle dita. E se negli USA tutto è politica, allora la storia da Oscar di Ron Stallworth e Flip Zimmerman, ecco che diventa il canestro da tre punti segnato sulla sirena, contro un avversario che, ancora oggi (sono uscite vecchie foto razziste del governatore Democratico della Virginia Ralph Northam), si rivela infimo, antisportivo e spregevole. È un fiume in pieno, Spike, si fa carico della comunità afroamericana, delle ingiustizie, della visione che ha Hollywood dell’amore e dell’odio. La vittoria quindi è tutta la sua, con in pugno l’Oscar per la sceneggiatura, ovvero l’Oscar più importante. Perché, se le parole sono importanti, quelle di Spike sono profetiche.
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Qui potete vedere il discorso di Spike Lee dopo la vittoria dell’Oscar:
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