MILANO – «Magnifico-o-o-o»: il vincitore si prende tutto, Rami Malek prolunga il miracolo infinito di Bohemian Rhapsody portandosi a casa quattro Oscar (su cinque nomination) e la Fox ringrazia: adesso grazie al trionfo del Dolby può anche puntare al miliardo di dollari di incasso, che non è più un miraggio. Insomma, per uno strano gioco del destino, proprio il film che doveva essere un flop annunciato dopo l’abbandono di Sacha Baron Cohen prima e di Bryan Singer poi, è invece il grande trionfatore della Notte degli Oscar, anche più di Roma, Netflix e Cuarón che si fermano un passo prima della vittoria finale, lasciando campo a Green Book.
Molti gli spunti arrivati dal Dolby, innanzitutto proprio il caso Netflix: nonostante ormai i bookmakers lo dessero per sicuro vincitore, gli Studios hanno idealmente fatto blocco contro Roma e l’Oscar è tornato al cinema e finito a Green Book, in America distribuito da Universal, in Italia da Eagle, un onesto film old style di buoni sentimenti, anche se – e qui ha ragione Spike Lee, che ha protestato contro la vittoria del film di Peter Farrelly – a trent’anni da A spasso con Daisy siamo ancora lì. Sembra una vittoria come un’altra, ma è evidente che se Netflix e Cuarón avessero vinto anche la statuetta come miglior film qualcuno avrebbe dovuto fare i conti con una rivoluzione.
Doveva essere un’edizione a tutto volume e così è stata con Freddie Mercury improvvisamente diventato perfino un idolo dei millennials (!) e Lady Gaga a piangere su sogni e lotte davanti all’Oscar (indiscutibile) per Shallow. Nulla da dire su Olivia Colman per La favorita, anche se inizia a essere piuttosto crudele il giochino dell’Academy con Glenn Close: cosa deve fare per vincere un Oscar? Non si sa, certo pensare che lei a casa non abbia una statuetta e Christoph Waltz addirittura ne abbia due sul comodino fa pensare.
Così come fa pensare un’altra doppietta: che Mahershala Ali sia bravo, bravissimo, capace di sfumature e intensità affatto comuni lo sappiamo, ma due Oscar in due anni sembrano un po’ eccessivi, così come sembra eccessivo – ma l’onda era quella, si è capito – il premio a Rami Malek davanti a attori come Bale, Dafoe e Mortensen (ma pure la versione di Eddie Vedder di Bradley Cooper in A Star Is Born era notevole). Ma si sa, l’Oscar raramente va al più bravo (Kubrick ne sapeva qualcosa), l’Academy vive di momenti, di ondate e anche di casualità.
Inattaccabile l’Oscar a Spider-Man – Un nuovo universo, meno quello alla colonna sonora di Black Panther, che davanti aveva rivali molto superiori, e se la sceneggiatura non originale a Spike Lee fa finalmente giustizia dopo trent’anni e zero nomination, l’Oscar allo script a Green Book fa un l’ennesimo torto a un genio come Paul Schrader a First Reformed, che non è un film perfetto, ma poteva valere come scusa da parte dell’Academy per aver sistematicamente ignorato un uomo che scrive cinema come pochi altri.
Alla fine si è scoperto che l’Oscar non ha nemmeno bisogno di un conduttore, che lo show va avanti sempre e comunque, anche se – va ammesso – il fascino dell’Academy sta perdendo colpi e non è certo inseguendo blockbuster, cinecomics o Netflix (la nomination alla sceneggiatura non originale ai Coen era ridicola) che recupererà punti, ma forse semplicemente tentando di essere meno prevedibile e tornando a respirare cinema (ma sicuri che Il primo uomo qui non meritasse proprio?) le cose cambieranno. E già si punta all’edizione 2020, quella in cui Frozen 2 vincerà come film d’animazione, Tarantino sarà protagonista con C’era una volta a Hollywood e Scorsese prenderà 10 nomination per The Irishman, ancora una volta targato Netflix. E la storia si ripete…
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