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Da 5 Bloods | Spike Lee, il Vietnam (di oggi) e la potenza del suo cinema politico

Il nuovo “joint” del regista esplica quanto sia ancora pesante il debito degli USA verso la comunità nera

Da 5 Bloods - Come Fratelli
Lo splendido banner di Da 5 Bloods - Come Fratelli

ROMA – Esplosivo, furioso, attuale, politico. Che Da 5 Bloods, il nuovo “joint” di Spike Lee sia già il miglior film del 2020 lo capiamo immediatamente, come fosse una folgorazione. Ecco subito Muhammed Ali, con il suo celebre discorso del 26 febbraio 1978 a Chicago, quando disse che «La mia coscienza non mi permette di sparare a un mio fratello. E perché dovrei sparargli? Non mi hanno mai chiamato “negro”. Non mi hanno mai linciato». Poi, in un montaggio di attrazioni, sulle note di Inner City Blues di Marvin Gaye, il lancio dell’Apollo 11 e le proteste pacifiste degli Anni Sessanta contro Nixon; la scioccante esecuzione del prigioniero ammanettato per mano del generale sudvietnamita Nguyen Ngoc Loan; il monaco buddista che si diede fuoco a Saigon nel 1963; i pugni alzati di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi del Messico. E ancora, le rivolte nere contro i soprusi dei bianchi, da Est a Ovest degli USA. Quarant’anni fa, come adesso: l’uomo alla conquista delle stelle, mentre sulla terra si consumano immonde barbarie.

Da 5 Bloods
Ritorno in Vietnam

Perché è immediatamente palese la direzione che Spike Lee vuole dare alla pellicola, targata ovviamente 40 Acres and Mule Filmworks ma distribuita da Netflix. Dietro una lunga durata (due ore e mezza) e la colonna sonora di Terence Blanchard, c’è una storia che, più del (nuovo) Vietnam, parla di quanto le cose – socialmente e politicamente – non siano cambiate. Anzi. E l’accusa è diretta: il debito degli Stati Uniti d’America è insanabile nei confronti di chi ha costruito davvero la nazione più grande del mondo (date voi valore all’aggettivo). Ebbene, perché non scrivere una storia che parla proprio di un tesoro, quello che avrebbero meritato i reduci afroamericani dopo la Guerra del Vietnam. Un tesoro lasciato lì, nella giungla, insieme ai resti di Norman (Chadwick Boseman), il fratello che non ce l’ha fatta a tornare a casa. Così, se una promessa è una promessa, i suoi altri quattro brothers (Delroy Lindo, Clarke Peters, Norma Lewis, Isiah Whitlock Jr.) tornano a Saigon, per recuperare le piastrine di Norman e i lingotti da ridare a tutti coloro che sono stati strappati dall’Africa e resi prima schiavi e poi soldati, dal Vietnam all’Iraq.

Sul set di Da 5 Bloods
Sul set: Spike Lee, Isiah Whitlock Jr., Delroy Lindo, Jonathan Majors, Clarke Peters e Norma Lewis

In fondo, Spike Lee da Fa’ la Cosa Giusta a Blackkklansman è sempre riuscito a ricalcare (e anticipare) l’umore della sua comunità, costantemente in lotta per una giustizia impossibile da ottenere: nonostante Martin Luther King, Malcom X e Barack Obama, ogni epoca ha il suo scontro a fuoco, ha la sua intolleranza brutale e asfissiante. Che sia un improbabile presidente dai capelli arancioni, un membro della polizia o le leggi Jim Crow. E c’è tanta rabbia in Da 5 Bloods, la stessa rabbia di Lee, che prende forma cinematografica dall’estetica sporca (che belle le sequenze in 4:3 in Super 8) e dalla storia marmorea, piena di citazioni (Apocalypse Now, Stand by Me), allitterazioni e contraddizioni, come se la guerra e la pace siano la stessa cosa. Ma, in quella giungla di fantasmi e terra bruciata, i cinque fratelli di Lee scoprono che i ricordi, il sangue e il livore sono la benzina per un motore che da loro una consapevolezza sopita per anni: bisogna mantenere le promesse, continuare a lottare ma mai e poi mai cedere all’odio.

Da 5 Bloods
Un momento di Da 5 Bloods

E, come una canzone di Bob Dylan, Da 5 Bloods fa confluire la sua ira in un’opera anti-guerra, tanto che seguendo metaforicamente il finale istintivo e dinamitardo di Fa’ la Cosa Giusta, qui c’è una riflessione profonda sulla speranza, valore fondamentale che dovrebbe essere marchiata a fuoco su ogni Costituzione. L’era in cui viviamo è buia e feroce, il Vietnam moderno è frutto di oppressione e barbarie e le guerriglie di Minneapolis sono solo l’ultima scintilla di una lotta politica e umana che pare non conoscere fine. Eppure, la luce del pensiero e della vita non deve in alcun modo essere sopita. Perciò, se ad aprire il film c’è un infuriato Muhammed Ali, a chiuderlo non poteva non esserci la determinata quiete del reverendo King, che cita la poesia di Langston Hughes, il poeta di Harlem: “Oh, sì, chiaro e forte lo dico, l’America non è mai stata America per me, eppure, lo giuro su Dio — America sarà”. E allora, non resta che metterci in ginocchio.

Qui potete vedere il trailer di Da 5 Bloods:

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