MILANO – In attesa di Cloud, il nuovo film del regista al cinema dal 17 aprile, viene riportato ora in sala Cure, che senza dubbio è uno di quei film che hanno lasciato un segno, costituendo un prima e un dopo all’interno del genere horror. Scritto e diretto da Kiyoshi Kurosawa nel 1997, Cure si pone infatti come capostipite dell’evoluzione dell’horror giapponese in un genere più stratificato, che ne utilizza gli stilemi per poi però affrontare tematiche psicologiche, lavorando per sottrazione e dentro una realtà molto più metafisica piuttosto che di jump scare o di altre estremizzazioni più usate a Hollywood e dintorni. Kurosawa infatti ruba a piene mani dagli stilemi classici del noir e del thriller americano e li trasporta in una storia di omicidi inspiegabili, malattie psichiche e soggiogamenti mentali.

Ma di cosa parla Cure? Di Kunio Mamiya (Masato Hagiwara), un ragazzo che ha perso la memoria e non ricorda nulla, vagando per una Tokyo cupa e piovosa alla ricerca di risposte. La sua scia lascia però una traccia di sangue: ipnotizza chi incontra e li spinge a uccidere attraverso atti di follia. A cercare di risolvere un caso che sembra per tutti inspiegabile ci proverà il detective Kenichi Takabe (Kōji Yakusho, poi in Perfect Days di Wim Wenders) un uomo enigmatico, che vive con una moglie malata e che verrà spinto nelle piaghe più profonde della mente, dell’emotività umana per comprendere il lievissimo confine tra bene e male e per obbligarsi ad affrontare le problematiche che non è mai riuscito a sfidare. All’apparenza, Cure è un film violento, crudo, diretto, con il classico stilema del rapporto tra detective e sospettato, con il loro scontro e la sovrapposizione, ma è nei dettagli e nelle sue pieghe più tecniche e registiche che si dimostra essere un’opera imponente.

Kurosawa alla violenza e al sangue alterna sequenze oniriche e metafisiche che trasportano Cure su un altro piano logico e filosofico, alterna piani sequenza immobili a sequenze flash frenetiche, toglie quasi del tutto la musica per lasciare spazio solo ai suoni, ai colpi improvvisi, ai tremolii, al fruscìo del vento. Tutto questo per costruire un film in grado di intromettersi e sprofondare nel tema della malattia mentale, della complessità della mente umana, così da far emergere la relatività della pazzia e del concetto di bene contro male. E l’aspetto più rilevante e inquietante è che Kurosawa riesce a spaventare restando quasi fermo, immobile con i suoi silenzi e le parole trattenute perché Cure riesce a spingere lo spettatore a compiere il proprio viaggio verso le porte della mente che non vuole aprire, verso i segreti più reconditi e nascosti.
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