ROMA – Un racconto sincero e pieno di umanità? Sì, ma non solo. Vincitore del premio della Giuria e per il migliore attore a Un Certain Regard a Cannes, La storia di Souleymane di Boris Lojkine è un racconto potente in cui seguiamo Souleymane (Abou Sangare, al suo debutto al cinema), un ragazzo della Guinea che vive a Parigi, migrante senza documenti, rider che pedala e consegna cibo a domicilio mentre studia per superare l’esame che (forse) gli permetterà di ottenere lo status di rifugiato. Due giorni di vita, tra clienti ingrati, sfruttatori ed inseguimenti di autobus che non lo aspettano. Il film arriva ora in sala con Academy Two e noi a Roma abbiamo incontrato il regista Lojkine per parlare delle ispirazioni alla base del film, della situazione politica, del ruolo del rider e anche della sua passione per il cinema di Vittorio De Sica…
IO E I WESTERN – «Mi interesso delle migrazioni da molto. Percorsi di uomini e di donne che arrivano in Europa. Il mio primo film parlava proprio di quest’argomento, Hope, e quindi, in un certo senso, possiamo dire che La Storia di Souleymane può essere considerato un sequel di quel film. Nel 2020, a causa del COVID, siamo stati in lockdown e improvvisamente le strade di Parigi si sono svuotate, tranne che per i rider. Erano gli unici che giravano. Ero interessato a loro per dei motivi legati all’argomento, perché il rider, in quanto tale, pone molti interrogativi in rapporto a quella che è la nostra società, ed era anche una promessa piena di cose possibili e interessanti l’idea di avere al centro del film un uomo, la sua bicicletta, e una metropoli come Parigi. Amo i western e trovo che l’idea del rider, con la bicicletta e il telefono sia molto vicino all’idea di un cowboy a cavallo…».
ABOU E LE SCELTE DI CASTING – «Ho fatto un grande lavoro nella ricerca tra i non-professionisti per La storia di Souleymane. Cercavo un rider proveniente dalla Guinea e ne ho incontrati molti per le strade di Parigi. Abbiamo riunito duecento persone e abbiamo fatto due mesi di casting. In realtà poi, ironia della sorte, Abou non l’abbiamo trovato a Parigi, ma in una cittadina nel Nord della Francia. Abou è della Guinea, non aveva mai fatto il rider e non aveva mai richiesto diritto d’asilo, però aveva molte cose in comune con il mio Souleymane. E la storia che raccontiamo alla fine, è la sua storia. Quando ho incontrato Abou – così come altri interpreti del film – ho adattato lo script a lui e agli altri interpreti. Ho iniziato il mio lavoro sul film documentandomi con loro, ho fatto molte interviste – alcune piuttosto lunghe – e solo dopo ho cominciato a riflettere su che tipo di film volessi fare…».
LA LAVORAZIONE – «Abbiamo lavorato con una troupe leggera, ma in certi giorni eravamo anche in centoventi. Per girare le scene nel ricovero dove c’erano da gestire numerose comparse, ma anche altri dove eravamo perfino in tre-quattro – molto al di sotto degli standard delle riprese di fiction – ma soltanto con questo tipo d’impostazione è stato possibile non sconvolgere la vita di Parigi. Non abbiamo mai dovuto interrompere il traffico, insomma. Abbiamo girato in mezzo a tutto quel casino, alla folla, le auto, la metro, le moto: sono queste cose a dare energia a La Storia di Souleymane e alla città. Perché Parigi è un personaggio del film, è l’antagonista del rider, e volevo mostrarla sotto un altro sguardo. Non sono soddisfatto nel modo in cui spesso la si vede nei film. O è molto turistica e romantica, o pulita, non è la città in cui abito. Riferimenti? Molte cose ricordano il cinema americano degli anni Settanta di John Schlesinger (Un uomo da marciapiede) o la contemporaneità di autori come Josh e Benny Safdie (Good Time, Diamanti Grezzi), e sono quelli i miei riferimenti, non il cinema sociale di Jean-Pierre e Luc Dardenne…».
LA COERENZA DI SGUARDO – «Quando ci si impadronisce di un argomento come questo credo che bisogna essere onesti al cento percento. Cosa non facile. Per riuscire a raccontare una storia come questa bisogna abbandonare il nostro ruolo di uomini bianchi per cercare di passare dall’altra parte. Cercare di immedesimarsi, mettersi in ascolto, avere molta umiltà. Nel contesto politico attuale è ancora più importante raccontare storie come questa, storie su persone che nessuno mai racconta. Una cosa che ho sempre voluto fare, come regista e come uomo. Con La Storia di Souleymane credo di esserci riuscito, nonostante sia stato un film difficile da girare – lo definisco un film sportivo – che però mi ha dato molta felicità. C’è coerenza nella storia, nel casting, nell’uso della troupe, nel modo di girare, e nel modo in cui si sono spesi i finanziamenti…».
UN FILM ESPERIENZIALE – «Raccontare il fenomeno dell’immigrazione è qualcosa di molto urgente oggi. In Francia, come in Italia, hanno preso peso nei discorsi politici e lo vediamo anche nei telegiornali. I migranti vengono presentati come figurine. Sono privati della loro umanità. Il mio obiettivo, con un film come questo, era di riumanizzarli. La Storia di Souleymane non si pone di lanciare messaggi, ma di far vivere un’esperienza allo spettatore con Souleymane e la sua bicicletta, dandovi una sensazione fisica di questa vicinanza. E vediamo come ne uscirete dalla visione. Forse guarderete in modo diverso i rider, ma anche il mondo che vi circonda. È per questo che il finale del film è aperto, non c’è alcuna risposta. Non ho voluto darne. Dev’essere lo spettatore a porsele».
ANYWHERE ANYTIME E VITTORIO DE SICA – «L’ho visto di recente, a Toronto, Anywhere Anytime, anche se l’argomento potrebbe essere simile (in parte lo è, nda), il regista ha fatto delle scelte all’opposto rispetto a quelle che ho fatto io. Per la musica, per il ritmo, per la regia, anche nella scelta di raccontare la storia di una bicicletta rubata. Amo molto Vittorio De Sica. La mia più grande ambizione in ambito cinematografico è di girare un film neorealista italiano. Quando ho scelto quale storia raccontare per il mio film, sono partito chiedendomi: Qual è la storia giusta da scegliere di raccontare? E mi son detto: Potrebbe essere perfino quella di uno che si fa rubare la bicicletta, come in Anywhere Anytime e in Ladri di Biciclette. Ho incontrato diversi rider a cui avevano rubato la bicicletta. Uno mi ha raccontato che gliel’hanno rubata per tre volte. Mi è parso, però, che farsi rubare la bicicletta sia un problema – è vero – ma che si può risolvere. Cioè quando gliela rubano vanno al mercato nero e se ne ricomprano un’altra, senza problemi. È sicuramente una cosa difficile, fastidiosa, ma non insuperabile. La cosa che può veramente cambiare la vita del rider è il colloquio, in seguito del quale dei documenti vitali possono essere concessi come possono esserenegati. È quella la drammaturgia del film e di queste vite…».
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