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Black Widow | Scarlett Johansson, la Marvel e un film che ci fa affrontare la paura

Il primo capitolo della Fase 4 illumina il passato (e perché no, anche il futuro) di Natasha Romanoff

Black Widow
Black Widow

ROMA – Potremmo quasi dire che Black Widow sia un film di rivelazioni, di fughe, di sentimenti celati e poi empaticamente condivisi. Come suonava Don McLean in American Pie, una tra le canzoni più oscure, concettuali e metaforiche – “A long, long time ago, I can still remember how that music used to make me smile, and I knew if I had my chance…”. Il significato, appunto, è sempre stato avvolto da un’aurea misteriosa: si parla di illusione? Di perdita dell’innocenza? Non a caso, Cate Shortland inserisce il brano in due momenti cruciali di Black Widow, primo film della Fase Quattro del Marvel Cinematic Universe che, appunto, illumina ed esplora (finalmente) la storia della dolente Vedova Nera alias Natasha Romanoff, ovviamente interpretata da Scarlett Johansson. Eccezionale, ancora una volta, a dare al personaggio quelle sfumature umane e poetiche che contraddistinguono l’ultra decennale filone prodotto da Kevin Feige.

Black Widow: Scarlett Johansson è Nat
Black Widow: Scarlett Johansson è Nat

Un brano arcano e iconico, quindi, perfetto per l’Avenger più enigmatico: senza rivelarvi troppo, Black Widow (dal 10 agosto in streaming su CHILI) si piazza nel preciso arco temporale tra Captain America: Civil War e Avengers: Infinity War, mostrandoci però alcuni flashback di chi è (stata) davvero Nat e, in particolar modo, di cosa sia la famosa Stanza Rossa che continua a tormentarla. Essenzialmente, dietro l’appeal da cinecomic potente e spettacolare, anche Black Widow nasconde un cuore profondo e intimo, proseguendo e rafforzando il discorso di quanto sia più importante l’essere umano dietro la maschera. E alla causa si presta bene Natasha Romanoff che dalla Russia viene catapultata in Ohio, per poi ritrovarsi fin da piccola al centro di un complotto del KGB che la vorrebbe spietata agente segreto. Insieme a lei, un gruppo di Vedove manipolate dallo spietato Dreykov (Ray Winstone), una sorta di garante della guerra e della pace.

Scarlett Johansson e Florence Pugh in Black Widow
Scarlett Johansson e Florence Pugh in Black Widow

Ma attenzione, Nat come sappiamo ha ormai abbandonato il KGB, e nel film la vediamo inseguita dall’esercito americano in quanto traditrice dei trattati di Sokovia (chi segue la saga sa di che parliamo, gli altri… beh, dovreste vederla dall’inizio). Durante la fuga – più o meno volontariamente – rincontra la sua famiglia persa tra gli anni e tra i ricordi. E insieme a loro – Yelena (Florence Pugh, destinata a prendere l’eredità di Scarlett Johansson), Alexi/Red Guardian (David Harbour, strepitoso) e Melina Vostokoff (Rachel Weisz) -, intraprende la definitiva battaglia per liberarsi dalle sue radicate paure. Perché Black Widow di Cate Shortland è un film che parla proprio di quanto sia importante affrontare ed elaborare le paure più nascoste, capaci di plagiarci e di graffiarci, portandoci irrimediabilmente ad innalzare un muro emotivo che, alla fine, non può non crollare su noi stessi.

Scarlett, David Harbour e Florence Pugh
Scarlett, David Harbour e Florence Pugh

Ed è incredibile quanto la Marvel Studios riesca ancora una volta a mantenere altissima la qualità delle sue produzioni, alternando l’anima spettacolare ad una narrazione costruita sui cardini ormai certi: l’inclusività, il coraggio, il senso del sacrificio e, specialmente, il senso della famiglia, qui particolarmente disfunzionale e allargata, certamente complicata (quale non lo è?) e meravigliosamente unita. Forse Black Widow – tra gli effetti visivi e gli agganci al futuro prossimo del MCU – è il capitolo più umano di tutti, quello che ha per protagonista una ragazza dell’Ohio cresciuta troppo in fretta, arrabbiata con il mondo per averla resa prima un’assassina e poi un’eroina. E allora, per oltre due ore, ecco la domanda che le frulla in testa: quanto è labile il confine tra la luce e l’oscurità? Natasha, la Marvel e un film che aiuta a capire le nostre paure. E chissà, anche a superarle.

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Qui l’intervista a David Harbour a cura di Manuela Santacatterina:

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annette

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