MILANO – «La vita è troppo beffarda per sperare di capirci qualcosa». La linea è tracciata: dalla prima pagina seguiamo questa massima di Woody Allen per affrontare con la giusta attitudine le pagine che compongono il suo contestatissimo memoir, ovvero, A proposito di niente: l’autobiografia, edita in Italia da La nave di Teseo, che ha acceso le polemiche ancora prima della sua pubblicazione con tanto di fazioni e discussioni, da una parte Larry David e Stephen King (pro Allen), dall’altra Ronan Farrow, Mia e parte del #MeToo. Nelle 400 pagine il regista non si risparmia e parla di tutto: della sua vita e anche di quanto è accaduto prima che nascesse, della carriera, degli scandali (la battaglia con Mia Farrow non è mai finita!) e del suo amore per il cinema.

Di fatto Allen fa quello che, per sua stessa ammissione, gli riesce meglio. Ovvero? Scrivere. Così scrive di ogni cosa con ironia e un po’ di amarezza, aggiungendo qui e là dettagli gustosi e aneddoti quasi incredibili, per dare pepe alla «sciapa saga alleniana», come lui stesso la definisce. Woody, o meglio, Allan Stewart Königsberg non si risparmia e giudica prima di tutto se stesso. Così si dipinge come un uomo senza uno spiccato talento – l’unica sua dote è saper far ridere – che ha costruito la propria carriera spesso grazie al caso e alla fortuna (Ricordate Match Point?).

Si inizia dal ritratto dei genitori, che litigavano sempre e si trovavano d’accordo solo su due cose: «Hitler e le mie pagelle». La mamma davvero brutta e il papà scavezzacollo che gli regala la preziosa Olympia (una macchina da scrivere ricettata) e lo porta a Manhattan. Quella Manhattan che da ragazzino Allen sogna decine di volte in sala, dopo aver scoperto le star e i film grazie alla cugina Rita. «Gli altri ragazzi uscivano dal cinema volendo essere John Wayne, Gary Cooper e Alan Ladd, io mi identificavo soprattutto con Reginald Gardner, Clifton Webb e con i personaggi più effeminati». Ma oltre alla passione per il grande schermo, emergono l’amore per i fumetti, il baseball e la magia, nonché un’innata avversione per la cultura da grandi intellettuali.

Per tutto il tempo Allen è come un illusionista che si sforza di mostrare qual è il trucco che ha sempre usato per lasciarci a bocca aperta. Si dipinge come un ateo, misantropo, pieno di fobie e slanci di megalomania. Quindi A proposito di niente è una captatio benevolentiae o un’autoassoluzione? Difficile dirlo, in mezzo però ci passa tutto il meglio del cinema. C’è l’ammirazione per Bob Hope, Groucho Marx, Arthur Miller e Tennessee Williams (sì, Un tram chiamato desiderio è il suo film preferito). Gli incontri con i grandi come Bergman, Resnais, Truffaut, Godard e l’amore per le donne che hanno segnato la sua vita. Su tutte spiccano la chiacchierata moglie Soon-Yi e l’attrice Diane Keaton, definita «il suo spirito guida».

In A proposito di niente Woody racconta dei suoi film però non si dilunga nei dettagli: loda gli attori e spesso (forse troppo) l’avvenenza delle attrici. Ammette i propri fallimenti quasi sempre dovuti a problemi di sceneggiatura o al suo “improvvisato metodo di lavoro”: niente prove, casting fatti seguendo i consigli della fidata assistente Juliet Taylor, si gira solo lo stretto indispensabile salvo poi fare miracoli al montaggio, il set si chiude alle 17.00. Finite le riprese, si va oltre senza ripensamenti. Non si leggono le critiche. Non si ritirano i premi. Il vero divertimento è fare un film, mentre la reazione del pubblico è imponderabile e, quindi, tanto vale accettare il rischio di una delusione, come l’insuccesso di Hollywood Ending.

Poi magari fra Che fai, rubi? e Un giorno di pioggia a New York succedono cose folli, come sedere al tavolo da poker con le star di Casino Royale e Quella sporca dozzina. Che fai? Se sei Allen li spenni, senza ritegno, usando i trucchi che hai imparato da ragazzino. Quando invece Roman ti invita a cena, accetti per scoprire, solo quando ti si para davanti, che il tuo ospite non è Polanski ma Abramovich. E se invece telefona Fellini? Rifiuti la telefonata, due volte, pensando che sia uno scherzo. Perché il Maestro dovrebbe chiamare un ex ragazzino di Brooklyn che voleva fare l’illusionista? Succede perché la vita è beffarda, ma non serve esaltarsi: siamo comunque tutti destinati a morire, dopo aver attraversato un’insensata serie di alterne fortune.
- Woody Allen e l’autobiografia della discordia | La polemica
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