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Tra Hollywood e Malcolm X | L’importanza di chiamarsi Denzel Washington

Cinema, teatro, televisione e Oscar, tra impegno e talento: i quarant’anni di carriera di un mito

Denzel Washington in una scena di Training Day, il film del suo secondo Oscar.

MILANO – Di Denzel ce n’è uno solo. Come Bruce, Vasco, LeBron. Uno di quei casi in cui è sufficiente il nome proprio per identificare immediatamente la leggenda. Da una parte, l’uomo in tutte le sue debolezze e fragilità, ovvero il lato più sporco e ruvido, in fuga dai suoi demoni oppure alla ricerca di una redenzione. Qualche esempio? Prendete Verdetto finale (gran thriller datato 1991, da recuperare), dove Denzel Washington interpretava un procuratore ex poliziotto la cui vita è rovinata da un cattivissimo John Lithgow, che lo incastra per pedofilia, distruggendone l’immagine pubblica. O, ancora, cercate Il diavolo in blu, tratto da un magnifico noir di Walter Mosley, in cui era un disoccupato che si reinventava investigatore.

Nel 1983 con Ed Begley e Mark Harmon nella serie A cuore aperto.

E poi, l’immensa lettera d’amore al basket di Spike Lee, He Got Game: un uxoricida che cerca di ritrovare l’affetto del figlio e uno spiraglio di libertà. Altri esempi memorabili? Il tetraplegico criminologo sull’orlo del suicidio Lincoln Rhyme de Il collezionista di ossa, il violento sergente Alonzo Harris di Training Day – che gli ha permesso di vincere il secondo Oscar – ma anche l’alcolizzata guardia del corpo Creasy di Man on Fire (uno dei più febbrili e adrenalinici film di Tony Scott), il boss dell’eroina Frank Lucas di American Gangster, per arrivare al sorprendente (e poco citato) capolavoro Flight di Zemeckis: apoteosi del Denzel in versione immorale e bastarda, un eroe americano che compie un miracolo, pieno di vodka e fatto di cocaina, e deve poi difendersi dal sistema giuridico e da una naturale attrazione per l’autodistruzione.

Con Spike Lee, in una pausa sul set di Malcolm X, 1992.

Dall’altra invece, ecco il profeta Washington, la guida morale della black culture, il volto cinematografico più fiero e hollywoodiano dell’orgoglio afroamericano: il miglior Malcolm X che si possa desiderare, l’avvocato grintoso e appassionato di Philadelphia, il pugile Rubin Carter detto Hurricane vittima di un vergognoso caso giudiziario, il coach antirazzista de Il sapore della vittoria, l’operaio di John Q. disposto a tutto pur di far operare il figlio malato. Corretto e scorretto, due facce della stessa medaglia: quella di uno degli interpreti più eclettici della storia del cinema, che da trent’anni non mostra cedimenti.

Con Tom Hanks, Mary Steenburgen e Jason Robards in Philadelphia, 1993.

E non sorprendiamoci se – a quarant’anni dal primo film – Il pollo si mangia con le mani, era il 1981 –
Mr. Denzel Washington spunta spesso nella cinquina dei candidati per l’Oscar come miglior protagonista (siamo a quota otto nominations), vedi End Of Justice (riscopritelo in streaming su CHILI qui) che proseguiva una galleria di personaggi sempre definiti, significativi, politici. E anche la carriera da regista ha un profilo coerente: se Antwone Fisher (altro film da recuperare in streaming) e The Great Debaters sono soprattutto meritevoli per le nobili intenzioni, Barriere è un’imponente lezione su come adattare il testo teatrale per il grande schermo. E non dimenticate Fino all’ultimo indizio, thriller cupo in cui lui, tra Jared Leto e Rami Malek (ve lo avevamo raccontato qui), vale da solo il film. Cuore, muscoli, cervello: come Denzel nessuno mai.

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