ROMA – E adesso non chiamateli più cinecomics, ha pensato Kevin Feige con Black Panther. Forse il più complesso, ambizioso e sì, anche controverso episodio, che il produttore abbia tirato fuori dalle pagine dei fumetti. Con Black Panther la Marvel ha osato spingersi talmente in là – pur mantenendo il suo tipico linguaggio – da toccare sentieri politici di strettissima attualità. No, non lo aveva mai fatto prima, e sicuramente mai in modo così marcato. La cosa è una naturale conseguenza dei tempi (oscuri) che stiamo attraversando e il film di Ryan Coogler – regista rivelazione dopo Creed, ma nessuno dimentichi che è lo stesso di Fruitvale Station – è arrivato a gamba tesa con addosso addirittura la copertina di Time in un passaggio storico e sociale precario e ferito. E Re T’Challa, interpretato da Chadwick Boseman – scomparso a soli 43 anni dopo una lunga malattia e a cui CHLI dedica un tributo con la vetrina Wakanda per sempre – interroga lo spettatore, mettendolo davanti a verità crude, facendolo dubitare su giusto o sbagliato.

In estrema sintesi Black Panther racconta i fatti immediatamente successivi a Captain America: Civil War, quando T’Challa sale al trono come nuovo re del Wakanda, Paese progredito, grazie al raro Vibranio su cui sorge, nel cuore più profondo della Africa Nera. Tutto qui? Sì, in Black Panther c’è relativamente poca trama e tutto ruota su un delicato fulcro: aprirsi o no al mondo? Conquistare o essere conquistati? Tenersi tutto o mescolarsi? E, soprattutto, mantenere una propria cultura ignorando (o reprimendo) le altre? Quesiti che rimbombano, cambiando di netto la consueta strada del cinema Marvel, un dato importante, a sottolineare maturità da parte di tutta la produzione, che centra il film sulla black culture, evitando cliché e buonismi, lanciando frecciate che non risparmiano nessuno, pur in una pellicola ricca di colori, profumi e atmosfere mistiche con almeno un paio di scene di pregevole cinema – vedi il duetto tra Martin Freeman e Andy Serkis – che hanno contribuito alla nomination agli Oscar come Miglior Film nel 2019.

C’è tanta Africa in Black Panther, la ricchezza di un continente, ma anche la sofferenza di un popolo senza pace, oggetto di dispute, guerre, confini fasulli, mappamondi che girano sempre dalla stessa parte. Dimenticando la nozione più importante di tutte: senza Africa, culla ancestrale, non ci sarebbe l’umanità. Pellicola densa, la più densa di tutto il Marvel Universe, costruita su un eroe monarca, re dubbioso e potente, sbruffone ma nobile che non vuole spalancare le porte del regno. Almeno fino a quando a reclamare il trono arriva il cattivo Erik (Michael B. Jordan), che invece vuole aprire Wakanda, per aiutare (conquistando) i fratelli neri, che come si ascolta in un passaggio da brividi, «hanno preferito gettarsi in mare piuttosto che diventare schiavi».

Controllata ma potente politica in un film di entertainment puro, dunque. C’è riuscita, o meglio ha avuto il coraggio di riuscirci, la Casa delle Idee, che con i suoi personaggi, ha raccontato per disegni e per immagini, la storia moderna (come dimenticare il punch di Cap America ad Hitler?), con tutte le sue pericolose incoerenze. E oggi, se in piena era Trump, tra le proteste che infuocano gli Stati Uniti che protestano al grido di Black Lives Matter, un re in calzamaglia ci ricorda che il punto di non ritorno è vicino, allora forse è meglio che si distruggano i muri per aprire la strada ad un ponte di unione e speranza. Una cosa è certa: con Black Panther i cinecomics non sono più stati gli stessi.
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