ROMA – C’è qualcosa di profondamente inquietante – ma anche, in fondo, necessario – nel tornare oggi nel mondo di 28 giorni dopo, il cult firmato da Danny Boyle. A ventidue anni di distanza da quel primo e memorabile capitolo, il regista torna in sala con 28 anni dopo, scritto da Alex Garland, e lo fa con un’ambizione chiara: non solo raccogliere l’eredità di una saga entrata nella storia del cinema di genere, ma riscriverne le regole, ampliarne i significati, scavarci dentro. Il risultato è un film che spaventa, certo, ma che sorprende per la sua capacità di andare oltre l’horror, raccontando una storia che parla anche di perdita, legami familiari e crescita interiore.

La premessa è semplice: sono passati ventotto anni dall’esplosione del virus della rabbia che ha devastato la Gran Bretagna. L’infezione, però, non è scomparsa: ha cambiato forma, come le persone che l’hanno attraversata. Su un’isola incontaminata e apparentemente sicura, Lindisfarne, vive una piccola comunità di sopravvissuti. Ma quando uno di loro decide di lasciare quel rifugio per una missione sulla terraferma, inizia un nuovo viaggio, che porta con sé rivelazioni, minacce e verità difficili da accettare. Boyle e Garland scelgono una narrazione più stratificata e introspettiva rispetto ai capitoli precedenti. L’infezione resta il motore narrativo esterno, ma non è più il centro emotivo del racconto. Il vero orrore non si annida soltanto nei corpi deformati o nelle fughe disperate, ma nei silenzi, negli sguardi, nelle relazioni spezzate. Nella consapevolezza che non tutte le battaglie si combattono fisicamente: alcune si consumano dentro, nella paura di perdere chi si ama.

Girato in larga parte con un iPhone 15 Pro Max, il film adotta un’estetica ruvida, immersiva, quasi documentaristica. Lo sguardo dello spettatore è costantemente chiamato a inseguire, osservare, decifrare. Il montaggio serrato e la colonna sonora cupa contribuiscono a mantenere costante la tensione. Eppure, dietro questo impianto tecnico raffinato, si nasconde una trama profondamente umana. Il vero centro del film è il rapporto tra una madre e suo figlio, impegnati in un viaggio che, inizialmente, sembra avere come scopo la ricerca di salvezza. Ma la destinazione si rivela tutt’altro che risolutiva. E a quel punto, l’orrore cambia forma. Non sono più i corpi infetti a far paura, ma l’inevitabilità della separazione e il profondo senso di perdita. Ed è proprio lì che il film si fa universale. Quel momento segna una svolta: il figlio non è più solo un sopravvissuto, ma diventa un individuo consapevole. Non è l’atto di uccidere a sancire il suo passaggio all’età adulta, ma la presa di coscienza che anche chi amiamo può andar via, e che lasciar andare può essere l’unica forma di amore possibile. In un mondo dove l’istinto di sopravvivenza sembra l’unico valore rimasto, 28 anni dopo suggerisce invece che l’accettazione del dolore sia la vera chiave per andare avanti.

Il cast è uno dei punti forti del film. Jodie Comer è magnetica, fragile ma determinata. Aaron Taylor-Johnson costruisce un personaggio credibile, che cresce sotto i nostri occhi. Ralph Fiennes, enigmatico e misurato, aggiunge una tensione quasi filosofica alla narrazione. Senza mai dichiararlo apertamente, 28 anni dopo è anche una storia di formazione: un percorso che trasforma un figlio in un adulto, non nel gesto brutale della violenza, ma nel riconoscimento lucido del lutto. La morte, qui, non è solo una fine, ma un passaggio di testimone. Il risultato? Un ritorno riuscito, che non si limita a cavalcare la nostalgia ma prova a rilanciare, con intelligenza e una sorprendente delicatezza emotiva, il senso stesso di questa saga. Un film che spaventa, sì, ma che sa anche commuovere. E che, nel dolore, trova la sua verità più profonda: la crescita.
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