in

A Sort Of Homecoming | David Letterman e il cuore di Dublino secondo Bono e Edge

Musica, politica, storia, amicizia: il documentario di Disney + sugli U2? No, non è la solita celebrazione

A Sort Of Homecoming.
Bono e The Edge degli U2 nel poster di A Sort Of Homecoming.

MILANO – David Letterman in attesa al JFK con in mano il libro di Richard Ayoade. Le note di una vecchia canzone del 1985. Un aereo che decolla. La prima volta a Dublino. Comincia così, proprio come un viaggio, Bono & The Edge A Sort Of Homecoming con David Letterman, titolo troppo lungo per un documentario disponibile dal 17 marzo su Disney + e che, minuto dopo minuto, diventa molto di più di ciò che promette. Dal titolo e dal lancio sembrava ovvia l’operazione a supporto della nuova raccolta degli U2 (Songs of Surrender, in uscita lo stesso giorno), invece più ci si addentra nel percorso di Letterman nel cuore di Dublino e più cambiano i punti di vista, gli spunti, le riflessioni. Ci sono i luoghi, dall’Ambassador di O’Connell Street al Forty Foot, e le persone, ci sono i ricordi e le canzoni, ma A Sort Of Homecoming è un film con gli U2, non (solo) sugli U2.

David Letterman a Dublino, alla sua prima volta in Irlanda.

Ma andiamo con ordine: il documentario è un film lungo 85 minuti costruito in maniera circolare (ma perché non portarlo al cinema come evento?) prodotto da Ron Howard e Brian Glazer e diretto da Morgan Neville, documentarista che ha vinto l’Oscar nel 2013 con 20 Feet from Stardom e ha già firmato lavori su Anthony Bourdain (Roadrunner: A Film About Anthony Bourdain), Orson Welles (They’ll Love Me When I’m Dead) e non ultimo su Apple TV la bella serie Watch the Sound with Mark Ronson. Non un pivellino, insomma, e si vede da subito, da come segue Letterman per le strade di Dublino e sul treno verso Wicklow, usandolo come punto di vista privilegiato su un racconto unico che ha il grande merito di entrare in Irlanda attraverso gli U2, non per celebrare gli U2, al punto che Bono e Edge entrano e escono dal racconto più volte e lasciano la scena spesso e volentieri.

A Sort Of Homecoming
Bono e Edge in un altro momento di A Sort Of Homecoming.

Ci sono molti protagonisti nel racconto, si vedono anche Jimmy Iovine, storico produttore e amico di Bono, il vecchio compare Anton Corbijn con i suoi scatti, e Glen Hansard, che a tutti gli effetti è il quarto protagonista del documentario, sempre molto presente. Uno dei passaggi più toccanti è proprio quello in cui Hansard recita a memoria uno scritto di Moya Cannon, poetessa irlandese, aprendo il contesto e ampliando la cornice del racconto: «It was always those with little else to carry who carried the songs to Babylon, to the Mississippi — some of these last possessed less than nothing did not own their own bodies». La storia del folk, della tradizione orale, l’importanza di tramandare le canzoni perché non sono solo musica, ma sono pezzi di identità e ognuno ne possiede un pezzo. Che siano degli U2, dei Dubliners, di ieri o di domani.

A Sort Of Homecoming
Un dettaglio della scena girata al McDaid’s, storico pub di Dublino.

La chiave di tutto è racchiusa nel finale, girato al McDaid’s, storico pub su Harry Street dove si trovavano negli anni Cinquanta poeti come Paddy Kavanagh e Brendan Behan. Lì, seduti in cerchio come un gruppo di vecchi amici, oltre a Bono, Edge e Letterman, ci sono molti musicisti della scena di Dublino come Grian Chatten dei Fontaines DC, Hansard e Markéta Irglová (ricordate Once?), Imelda May, Loah, il duo degli Ye Vagabonds, Dermot Kennedy, le Saint Sister, tutti uniti a cantare Invisible, con la pinta di Guinness in mano e un sorriso incredulo addosso. Tutti lì, uniti, una voce sola al servizio – attenzione – non degli U2, non di Disney +, non della celebrazione firmata Letterman, ma della musica e del suo infinito potere taumaturgico. Un fuoco indimenticabile in tempi oscuri come questi. «There is no them. There’s only us». 

  • PODCAST | Il viaggio degli U2 al cinema
  • VIDEO | Il trailer di A Sort Of Homecoming:

 

 

 

 

Lascia un Commento

Scream VI

Scream VI | Jenna Ortega, Ghostface e un horror troppo debole per sostenere l’eredità

Da Isabelle Huppert a François Ozon, se il cinema francese va in scena a Rendez-Vous