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Jazzy | Morrisa Maltz, il valore della Memoria e il crescere oltre la Riserva

In anteprima alla Festa del Cinema di Roma un coming-of-age nella tribù moderna degli Oglala Lakota

Jasmine Shangreaux in una scena di Jazzy
Jasmine Shangreaux in una scena di Jazzy

ROMA – Cosa significa realmente, crescere e appartenere ad una comunità Oglala Lakota? Lo sapevamo “ieri”, poiché molto cinema western si è interrogato sulla questione, mentre oggi, il tema non può che risultarci estraneo, distante e ormai passato. Non la pensa allo stesso modo Morrisa Maltz, che al terzo lungometraggio da regista, racconta – con – e attraverso Jazzy (Jasmine Shangreaux), giovane Lakota di dieci anni, il cui nome dà il titolo allo stesso film, il reale significato di crescita oltre la riserva, seppur confinata in territori, esclusivamente popolati da Lakota e tribù confinanti. Eppure, ciò che incuriosisce, non è tanto la riflessione sulla sparizione della frontiera moderna, né tantomeno sulla qualità di vita, ad oggi ancora tremendamente bassa per moltissimi nuclei familiari, appartenenti a ciò che resta dei nativi americani. Coloro ai quali un tempo tutto apparteneva, colori ai quali in seguito tutto è stato rimosso, ma mai dimenticato. Piuttosto, la sola presenza fanciullesca, che esclude il mondo adulto, ribaltando le logiche di una convinzione popolare fin troppo estesa, che vorrebbe invivibile quel modello spirituale di vita e lavoro, poiché isolato, duro e immateriale.

Jazzy, un film di Morrisa Maltz, in anteprima alla Festa del Cinema di Roma
Jazzy, un film di Morrisa Maltz, in anteprima alla Festa del Cinema di Roma

Eppure non è così, o meglio solo in parte. Maltz guarda al miglior cinema dei fratelli Dardenne, senza mai perdere il proprio punto di vista, che molto deve a Werner Herzog e Anna Eborn, autrice quest’ultima di un coraggioso e recente documentario intitolato Pine Ridge, girato interamente tra i componenti della tribù Oglala Lakota, nella riserva Sioux del South Dakota, dove ancora vivono migliaia di nativi americani e all’interno della quale anche Morissa Maltz sceglie di girare il suo terzo film, Jazzy. Come detto, Maltz non si interessa esclusivamente ad un cinema documentaristico, capace di cogliere la bellezza oltre il solitario, il remoto e il confinamento sociale, cui tutt’oggi sottostanno gli Oglala Lakota. Il suo è anche un cinema puramente finzionale, che inserendosi appieno nel florido filone dei coming-of-age movies, segue crescita e armonia proprie dell’innocenza di Jazzy, alle prese con i primissimi litigi d’amicizia e d’infanzia e così le fughe e gli allontanamenti dall’amore, che ancora fa paura, poiché adulto, poiché oltre l’innocenza e fin troppo vicino alla fine della stessa. Maltz riscopre poi perfino il cinema di denuncia sociale, pur confinato esclusivamente al sottotesto, osservando e raccontando la questione del disagio economico, cui segue inevitabilmente il forzato abbandono di ciò che si dovrebbe possedere, eppure non si possiede affatto.

Jasmine Shangreaux in una scena di Jazzy
Jasmine Shangreaux in una scena di Jazzy

Jazzy a differenza di moltissimo altro cinema recente, interessato solo in parte alla dimensione reale e spirituale dei nativi americani d’oggi, sceglie accuratamente di non ricorrere mai ad alcun estetismo, alleggerimento o sensazionalismo di sorta, dando vita ad un cinema atipico, vitale e malinconico, che si potrebbe definire, frammenti di crescita. Vere e proprie istantanee, molto spesso perfino banali, almeno in superficie, quando in realtà, osservando meglio e più a fondo, risulta inevitabile non cogliere in esse un certo grado di complessità e profondità. Il quale fa riferimento ad un modello e condotta di vita irripetibile. Lo stesso che difficilmente sopravvivrà alle generazioni del domani. Quelle che Jazzy mostra e racconta, perse in sé stesse, confuse rispetto al reale significato d’appartenenza identitaria, dunque globale. Ecco perché questi bambini sono sempre soli, poiché la tradizione è svanita e non tornerà, a meno che gli adulti non si interroghino davvero, sui modi e la ricerca di una nuova forma di apprendimento, che non rimuove le radici, bensì le riconduce all’oggi, senza più negare l’appartenenza all’american way of life, piuttosto accettandola, con i dovuti limiti e le inevitabili barriere spirituali/religiose. Lily Gladstone appare brevemente nel segmento conclusivo del film.

Una scena del film
Una scena del film con Lily Gladstone

Una presenza divistica (appena dopo Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, è proprio questo che è successo) necessaria. A conferma un impegno fino a pochi anni fa considerato insperabile e per questo mai realmente concretizzato dal panorama cinematografico statunitense: la nascita di una reale cinematografia, capace di storicizzare e perché no, perfino attualizzare il tema, oggi decisivo più che mai, della vita dentro e fuori le moderne frontiere, sul territorio degli Stati Uniti d’America. Non più in mano al bianco americano di New York City, oppure del Texas o della Louisiana, piuttosto del cittadino, lo stesso al quale un tempo la frontiera apparteneva. Lo stesso del quale fin troppo a lungo ci siamo dimenticati. O ci è stato chiesto di farlo? Jazzy ci permette di ricordare attraverso un sorriso. Vale la pena di farlo.

  • VIDEO | Qui per una featurette romana a tema Jazzy: 

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