ROMA – La pipa e un sorriso, di quelli che sanno metterti a tuo agio: l’avevamo incontrata a Venezia, proprio alla fine del viaggio produttivo di Vivere. «Verso Sera, Il Grande Cocomero, Lezioni di Volo. Divido la mia vita in film, portando il ricordo di tutti: gli attori, i produttori, i collaboratori. Figure che spesso non vengono raccontate». E così ecco come Francesca Archibugi ci aveva raccontato la storia di Vivere, una commedia umana su una famiglia per cui aveva scelto un gruppo di attori eccezionali, a cominciare da Micaela Ramazzotti e Adriano Giannini, per mettere in scena una famiglia molto particolare. «Sì, la mia famiglia del film? Come lo sono oggi: diversa, aperta al mondo. Una sorta di girotondo…».
LA STORIA – «Mi escono spesso storie che sono commedie umane, in cui la famiglia è centrale, ma poi si apre. In fondo siamo legati tutti ad altro o no? Le relazioni che si intrecciano dentro e fuori la famiglia – amicizia, lavoro, quelle extra-coniugali – sono altrettanto importanti a modo loro. Abbiamo così raccontato un girotondo, dove si parte da un nucleo per allargarlo ad altre persone. Qui c’è questa ragazza irlandese (interpretata da Roisin O’Donovan ndr.), cattolica e amante dell’arte, che si stupisce di questa nuova realtà, e tutto comincia a girare al contrario…»
IL FILM – «Dunque, ma a chi è rivolto Vivere? A diciassette anni, se non avessi letto Felicità di Katherine Mansfield (oggi edito da Marsilio, nda), quando in quel momento la storia era totalmente distante da me, non avrei capito tante cose della vita. Ecco, questi film sono importanti anche per i giovani, perché hanno una relazione con il romanzesco. E finché me li faranno fare, continuerò a fare film così…».
LE STORIE – «Mi considero un vettore. Leggo, vedo film, parlo con le persone e sì, ascolto le loro storie. Le cose mi attraversano, ma non mi considero importante. Però, cerco di fare bene le cose, dirigendo gli attori senza vanità della messa in scena. La storia, in fondo, deve essere raccontata da sé stessa. In parte c’è umiltà in una visione come la mia, ma in parte c’è anche caparbietà nel difendere questa idea di cinema che, in questo momento, mi sembra minoritaria».
GLI ERRORI – «Vivere è sbagliare perché bisogna capire che gli sbagli vanno accettati sempre senza giudicarli. Per la sua parte, Adriano Giannini doveva contenere una cupa dolcezza, capace di far comprendere il personaggio, senza essere sindacalizzato, nonostante la sua morale certamente ambigua. Ma in realtà lui è incapace di essere felice, e quindi volevo si creasse un’empatia verso di lui».
GLI ATTORI – «Micaela, per me, è una specie di cognata. Le voglio molto, molto bene. È istintiva, si immedesima, è un soldato con i personaggi. Studia e si prepara alla grande. Ma, sul set, dopo le prove, diventiamo tutti parenti. Una sorta di traversata oceanica fatta insieme, dove il rapporto diventa come sulle navi, evolvendosi in vicinanza. Poi, quando ti stacchi – e non è facile – parti per un altro viaggio. Marcello Fonte? Di lui mi sono innamorata in Dogman, ma in Vivere doveva contenere una sorta di inquietudine, di malinconia. Un piccolo ruolo ma fondamentale. Gli dicevo, “Marcello, tu sei me, sei tu che li guardi dalla finestra…”. Marcello è un grande artista, totalmente diverso da tutti gli altri».
LA SALA – «C’è in atto un cambiamento enorme. La televisione, le piattaforme, la sala. Siamo tutti smarriti. Però oggi c’è anche una grande opportunità narrativa, perché mai come adesso la gente cerca storie per immagini. Non bisogna lagnarsi, ma rimboccarsi le maniche e lavorare. La sala non morirà mai, chiaro, ma si deve affiancare bene al consumo casalingo, dato che le tv diventano sempre più grandi…».
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