ROMA – Può un genitore amare un figlio anche quando non lo riconosce più? Ivano De Matteo ci ha abituati a un cinema che scruta le crepe, i vuoti, le ombre dentro le relazioni familiari. E, dopo Mia, continua a farlo, e a saperlo fare con Una figlia, in cui il regista torna a indagare il punto di rottura in cui l’amore genitoriale si scontra con l’inimmaginabile. Stavolta lo fa con una partenza incerta, quasi trattenuta, che nei primi venti minuti sembra non trovare la direzione giusta. La sceneggiatura è a tratti forzata e la storia ha bisogno di qualche cambio di passo per decantare, per capire in un certo senso che direzione voler prendere. Poi, lentamente, quasi naturalmente, Una figlia trova il suo ritmo. Non si impone. Si assesta. Si svela. E quando lo fa, il film cambia pelle, rivelando tutta la sua complessità emotiva e dolorosa.

Al centro del racconto, il rapporto spezzato tra Pietro (uno Stefano Accorsi misurato, pieno di silenzi e respiri trattenuti) e Sofia (Ginevra Francesconi, sempre brava e qui forse nel suo ruolo più complesso), figlia adolescente segnata da un dolore mai elaborato e da un gesto estremo che l’ha condotta in carcere. Un gesto che lascia ferite profonde e domande scomode: cosa accade quando chi ami di più fa qualcosa che non puoi perdonare? Si può ancora essere un padre? Si può ancora essere una figlia? De Matteo e Valentina Ferlan, coautrice della sceneggiatura, costruiscono una narrazione che non cerca giustificazioni, ma comprensione(?). Non giustizia, ma sincerità emotiva. Ed è lì, anche in quei non detti, negli spazi vuoti tra una scena e l’altra, che il film prende forma. Non puntando al colpo di scena quanto alla cicatrice.

Dal centro di accoglienza al carcere minorile, dalla solitudine del rifiuto paterno al possibile (ma fragile) percorso di riavvicinamento, De Matteo vuole raccontare un cammino difficile, irto, che non offre soluzioni semplici. Un cammino dove la colpa si mescola all’affetto e il bisogno di perdono si scontra con la paura di concederlo. L’abilità di De Matteo è quella di saper raccontare un dolore composto, mai urlato, eppure costante. Ne esce un cinema di sottrazione, dove il non mostrato diventa eloquente e dove la violenza non viene spettacolarizzata, ma lasciata sullo sfondo. Non interessa (e non deve), perché qui non interessa il fatto in sé, ma le sue conseguenze.

La vera consapevolezza artistica di De Matteo è nella tecnica. Nella costruzione estetica della tecnica. Ancora una volta l’utilizzo della pellicola come scelta non soltanto registica quanto fondamentale al suo percorso. In cui il ritorno all’essenziale prevede una precisione che, forse, la digitalizzazione, con la sua infinita abbondanza e ipercorrezione non chiede così fermamente. «La pellicola» – ha detto l’autore a Hot Corn – «anche qui è stata fondamentale con la sua capacità di percepire la luce esattamente nello stesso modo dell’occhio umano e rendere ancora più vivi i volti dei miei personaggi».
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