MILANO – Viggo Mortensen torna al cinema western, dicendo la sua nella storia di un genere in cui si era già cimentato ai massimi livelli come attore al fianco di Ed Harris nell’ottimo Appaloosa, (di cui vi avevamo parlato in un’altra puntata di West Corn), ma che ha anche dimostrato di apprezzare nelle sue recenti collaborazioni con Lisandro Alonso (Jauja, il primo episodio di Eureka), oltre che ai tempi dei suoi primi passi nel mondo del cinema, quando appena trentenne mostrava il suo talento impersonando lo spietato Poe in Young Guns II, circondato dalle allora più quotate promesse della seconda linea di Hollywood (Kiefer Sutherland, Emilio Estevez e Christian Slater). Questa volta però, con The Dead Don’t Hurt, Mortensen si presenta in qualità di regista, co-protagonista, co-produttore, compositore e sceneggiatore di un film che è suo a pieno titolo, proprio come avvenne quando esordì dietro la macchina da presa con Falling – Storia di un padre.

Come quattro anni fa, è ancora la famiglia ad essere al centro delle attenzioni del neo regista, ma in The Dead Don’t Hurt l’attenzione non è più sulle difficoltà insite nei rapporti umani familiari, quanto sul modo in cui i legami amorosi combattono insieme, paralleli ma uniti, per stare nel mondo. L’amore, sembra dirci Mortensen, non è altro che l’incontro di due individui indipendenti che decidono di ritagliarsi uno spazio privato in cui astrarsi da un mondo infame, un piccolo rifugio autoprodotto da cui provvedere a loro stessi, ciascuno per sé e per l’altro, senza per questo rinunciare alle rispettive ambizioni e al proprio modo di essere. Nel West – qui siamo in Nevada all’alba dello scoppio della Guerra di Secessione Americana – questo significa costruirsi una casetta di legno e chiodi fuori città, al riparo dalla violenza e dai soprusi: esattamente quello che faranno la venditrice di fiori franco-canadese Vivienne (Vicky Krieps, già al fianco di Daniel Day-Lewis ne Il filo nascosto) e l’ex soldato danese Olsen (Viggo Mortensen).

Ma per poter diventare una coppia, come si diceva, bisogna innanzitutto essere prima due individui formati. Ed ecco che l’autore, attraverso il personaggio di Vivienne, rinnova la figura della donna nel West, allontanandola dai vari stereotipi che le volevano relegate ai ruoli secondari madri, mogli (o fidanzate) devote, amanti de-personificate, cantanti da saloon, prostitute o, ad andar bene, improbabili pistolere. Nel delineare questa sua nuova protagonista, con Viggo Mortensen il western diventa adulto: supera la sua obsoleta interpretazione primo-adolescenziale della figura femminile, per mostrarci una donna dotata di tutte le caratteristiche di un personaggio vero, solitamente attribuite ad un uomo: ha una volontà propria e la esercita in maniera razionale, è risoluta e sa distinguere ciò che vuole da ciò che non vuole, è libera e indipendente.

Saranno proprio queste caratteristiche ad attrarre Olsen nel pomeriggio del loro primo incontro al mercato. Un’intesa immediata e spontanea, da cui si sviluppa in maniera del tutto naturale quella collaborazione che è la condivisione di una vita insieme: ognuno con il suo lavoro, ognuno facendo quello che può. Certo, non tutto filerà liscio. Tutt’altro. Perché la Storia, la realtà e il mondo, anche se proviamo a metterli tra parentesi, considerandoli estranei alla nostra esistenza, non ci permettono di lasciarli del tutto fuori dalla porta: prima o poi vengono a bussare, entrano nelle nostre vite, nelle nostre case, spesso manifestando il loro lato più oscuro. Talvolta questo avviene per colpa nostra (come Olsen, facciamo scelte libere, ma che hanno conseguenze inevitabili), altre volte è il caso a determinare eventi incontrollabili (la natura, la malattia), altre volte ancora, sono gli individui che ci stanno intorno a compromettere la nostra serenità, soprattutto in una realtà di frontiera come quella di Elk Flats, in cui il rapporto tra legge, potere e violenza non è ancora del tutto codificato e in grado di difendere i più deboli.

Ed ecco il dramma, la tragedia, che si presta perfettamente agli archetipi tipici del western, genere per eccellenza che nella sua versione classica svolge nel Cinema una funzione simile a quella tragedia attica, riuscendo a stilizzare e rendere epiche le sue dinamiche in strutture canonizzate e quindi immediatamente riconoscibili. Mortensen sceglie questa via: non la psicologizzazione dei suoi personaggi (come aveva cercato di fare nel suo film d’esordio), ma l’attenzione alla forma, alla geometria, usando appieno il suo straordinario approccio fotografico all’arte dell’inquadratura. L’intento che emerge in The Dead Don’t Hurt non sembra dunque essere né revisionista, né storico-archeologico (Mortensen non ha la pretesa di svelare come “davvero” erano le donne nel 1860 o giù di lì), ma più propriamente ri-fondativo.

La tradizione classica del west edificava il mito dei suoi Stati Uniti d’America sui valori mascolini del coraggio, sui duelli all’ultimo sangue, e su una legislazione civile moralista da contrapporre all’irrazionale e violento stato di natura; con The Dead Don’t Hurt il regista decide di giocare la stessa partita, con le stesse regole e rispettandone i canoni, ma proponendo una nuova visione dell’America, che viene fondata sulla partecipazione e la valorizzazione del diverso: utile per giungere ad una legislazione che tenga conto delle differenze umane, ma imprescindibile per superare gli atteggiamenti primitivi di chiusura ed esclusione (tipici del feudalesimo e degli atteggiamenti mafiosi). Un’America cresciuta sulla volontà del fare, sull’individualismo – nel senso rinascimentale del termine – come valore di libertà e prerequisito del fare e del saper fare (costruire la propria casa, la propria vita, la propria comunità).
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