in

Ricky Tognazzi: «Io, i trent’anni di Ultrà e quell’Orso d’argento. Tra Roma e Berlino»

Da un binario alla Berlinale, tra tifosi e striscioni: a trent’anni di distanza, Ricky Tognazzi ricorda Ultrà

Ricky Tognazzi sul set di Ultrà. Era l'estate del 1990.

MILANO – «Cosa ricordo? Che era freddo, molto freddo…». Ricky Tognazzi ride, poi si fa serio e comincia a scegliere con cura i ricordi per provare a raccontare quello che è stato uno dei viaggi più importanti della sua carriera: Ultrà. Presentato alla Berlinale trent’anni fa – era il febbraio del 1991 – il film finì in concorso a fianco di colossi come Balla coi lupi di Kevin Costner e Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme e valse a Tognazzi l’Orso d’argento per la regia, condiviso proprio con Demme. «E fu una grande emozione», rammenta il regista. «Due anni prima ero stato a Cannes con Piccoli equivoci, ma alla Quinzaine des Réalisateurs. A Berlino invece ero in concorso e, ovviamente, fu tutta un’altra storia».

Sul set di Ultrà: Ricky Tognazzi con Claudio Amendola.

Patriamo da oggi: trent’anni dopo Ultrà è ancora lì ed è invecchiato benissimo…
«Ed è un film che amo ancora molto, un film eversivo, di grande rottura, un film coraggioso, capace di rompere gli schemi. Non dimentichiamo che Ultrà era co-prodotto dalla RAI ed è un film che alla fine si conclude senza pacificazione: una parte del gruppo di ultras prosegue nella sua rivolta, mentre il protagonista Red (Ricky Memphis, nda) non parla, decide di non tradire gli altri. Nonostante si renda conto che il gruppo è colpevole…».
Come arrivaste a quel finale?
«Ci fu un dibattito piuttosto lungo: la RAI spingeva per avere un finale etico, più conciliante, mentre io e gli sceneggiatori (Simona Izzo, Graziano Diana e Giuseppe Manfridi, nda) ne discutemmo poi sul set con il cast dove c’era gente che in Curva Sud aveva vissuto davvero e sapeva di cosa parlava, a partire da Claudio (Amendola, nda). Così, dopo una lunga discussione decidemmo che Red non poteva essere un infame, non poteva tradire il gruppo».

Claudio Amendola nel ruolo di Principe in una scena di Ultrà.

Facciamo un passo indietro, molto prima di Berlino. Come nasce Ultrà?
«Nel 1989 io avevo girato il mio esordio, Piccoli equivoci, e Claudio Bonivento, il produttore, mi avvicinò qualche mese dopo e mi fece i complimenti, dicendomi che ero un regista vero. Poi mi disse che aveva un progetto e aggiunse, come spesso fanno i produttori: «Ti dico solo il titolo, è una bomba: Ultrà». Non essendo un grande tifoso di calcio, intuii però immediatamente le potenzialità di un progetto così e accettai. Claudio (Amendola, nda) era già a bordo e per un momento pensammo di inventarci una squadra di calcio finta, ma sarebbe stato impossibile».
Così ecco la Roma ed ecco Principe.
«No, non Principe: Amendola doveva essere Red. Originariamente il suo ruolo era un altro. Poi cominciammo a fare provini su provini e non riuscivamo a trovare Principe. Non sapevamo più che fare. Poi una sera io, Simona e Claudio vedemmo al Maurizio Costanzo Show un ragazzo, un poeta urbano, con questo romanesco grezzo e molto vero: Ricky Memphis. Claudio (che poi racconterà la sua versione nella nostra intervista, nda) contattò Ricky che all’inizio non voleva crederci. Poi gli facciamo il provino e cominciammo a pensare che lui poteva essere Red».

Roma-Samp: Ricky Memphis e un giovane Massimo Ferrrero in Ultrà.

E come riusciste a convincere Amendola?
«Non fu semplice. All’inizio ci disse: “Ma siete matti? Io non posso mica essere l’eroe negativo”. Poi cominciammo a ragionarci e Simona lo convinse – con una buona intuizione femminile – dicendo che Principe era il più cattivo, ma anche il più erotico, che quel ruolo era di quelli che facevano impazzire le donne. Così poi Claudio ne parlò anche con Ferruccio, suo padre, e si convinse».
Il film uscì poi in sala il 2 marzo 1991 e le polemiche non mancarono…
«Ci sono due argomenti che non si possono toccare in Italia: la mamma e il calcio. Ecco, noi con quel film abbiamo fatto incazzare praticamente tutti, dai romanisti della Curva Sud che mi accusarono di averli dipinti come animali ad altri che mi dissero che li avevo ritratti come mammolette. Mi presi anche cori e striscioni, ricordo: “Tognazzi puttana lo hai fatto per la grana!” e “Tognazzi il degrado sarai te”, in riferimento al fatto che in un’intervista avevo parlato di periferia e degrado».

Amendola e Fabrizio Vidale nella scena finale di Ultrà.

Il tempo però ha detto la verità: Ultrà è un grande film.
«Non sta a me dirlo, ma non credo oggi ci sia tifoso della Roma che a casa non ha un Dvd o una VHS di Ultrà. Incontro sempre tifosi che mi fanno i complimenti, è diventato un cult tipo I guerrieri della notte di Walter Hill. I problemi li ho avuti sempre quando trovavo tifosi in gruppo: ricordo una volta all’aeroporto, a Fiumicino, che mi puntarono il dito contro, erano incazzati neri. La verità però è che per arrivare a Ultrà non improvvisammo nulla, facemmo decine e decine di provini, davvero realizzammo il pedinamento della realtà, per dirla alla Zavattini. Non c’è niente di falso là dentro…».
La colonna sonora fu un’altra grande intuizione: Antonello Venditti.
«Io venivo da Piccoli equivoci, dove avevo voluto coinvolgere Enzo Jannacci, uno dei miei cantautori di riferimento e non un compositore di cinema in senso stretto. Per Ultrà a un certo punto la scelta fu quasi obbligata: Antonello e la Roma avevano una storia cominciata molti anni prima, così a un certo punto, durante la lavorazione, glielo accennai e lui mi disse che ci avrebbe pensato. Una volta finite le riprese lo invitai a vedere il film finito, senza musiche. Lui se lo guardò e poi, alla fine, dopo qualche secondo di silenzio disse: “Siete riusciti ad entrare nei giubbotti di quei ragazzi”. E salì a bordo».

La partenza del treno: una scena di Ultrà.

Quando è stata l’ultima volta che ha visto Ultrà?
«Parecchio tempo fa. Ogni tanto ne guardo un pezzetto e mi ipnotizzo, perché ogni inquadratura è un ricordo, ogni frame è un pezzo di vita. Ultrà è un film fatto con pochi mezzi, basti pensare che metà pellicola la girammo in un vagone dismesso dalle Ferrovie dello Stato, a Borgata Fidene, un vagone tagliato a fette per poter entrarci dentro con la macchina da presa. Era l’estate dei Mondiali, quelli di Italia ’90. La notte di Italia-Argentina dovevamo girare una scena a Cinecittà. Finimmo la scena in piena notte con un clima mesto per l’eliminazione ai rigori».
E l’Orso d’argento dove lo tiene oggi?
«Sulla libreria. Non sono un feticista e quindi non ha un posto particolare. Ogni tanto lo guardo e penso a quello che aveva il povero Jonathan Demme a casa sua. Chissà quante volte, guardando il suo premio, si sarà chiesto: “Ma chi cazzo è ‘sto Ricky Tognazzi?”.

  • STORIE | #Ultrà30 e il nostro viaggio in un cult

Lascia un Commento

Con tutto il cuore | Vincenzo Salemme porta al cinema la sua opera teatrale

il talento del calabrone

Il talento del calabrone | Tempo di un Black Mirror all’italiana? Ancora no…