ROMA – Le impeccabili immagini, il senso del magnifico, la potenza di una favola centenaria, universale e trasversale. Matteo Garrone e il suo Pinocchio, la riscoperta del testo di Carlo Collodi e un viaggio cinematografico attraverso il mito di quel burattino, con i suoi insegnamenti e i suoi personaggi, diventati sinonimi culturali e sociali di un mondo spaccato a metà: innocenza e cattiveria, ricchi e poveri, disperati e sognatori. Pinocchio, con quella carrellata di figure entrate nel lessico comune, allegorie tipicamente italiane eppure globali, senza epoca né tempo.
La Fata Turchina (Marine Vatch e Alida Baldari Calabria), Mangiafuoco (Gigi Proietti), Il Gatto e la Volpe (Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini), l’Omino di Burro (Nino Scardina). Addirittura il Tonno (Maurizio Lombardi), che “quando si nasce tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio”. E cos’è Pinocchio se non un’ideale puro, che si fa strada lungo un cammino lastricato di prove, di sfide, di pericoli. Così, Garrone, che ha scritto il film insieme a Massimo Ceccherini, pur saltando alcuni passaggi originali (non ci sono Alidoro e Melampo, non c’è Il Paese delle Api Industriose), resta abbastanza fedele al romanzo originale, costruendo (è il caso di dire) un film artigianale, nel senso più nobile del termine.
Come quel Geppetto (interpretato con toccante umiltà da Roberto Benigni) padre per eccellenza, dolente e buffo, con un forte richiamo ai classici maestri della povertà cinematografica, Charlie Chaplin e Buster Keaton. Un immaginario che fonde il reale al sovrannaturale, la miseria e la gioia, con le ispirazioni arrivate a Garrone direttamente dai disegni di Enrico Mazzanti e dai dipinti dei macchiaioli: la luce di Serafino Da Tivoli, i paesaggi toscani di Giovanni Fattori, i volti sporchi e popolari di Niccolò Cannici. Tutto, elevato da una regia estetica e dalla splendente fotografia di Nicolaj Bruel (che aveva già collaborato con Garrone in Dogman), che non manca mai di illuminare il cammino di Pinocchio. Che sia nel Campo dei Miracoli o nel ventre di un Pesce Cane.
Perché, alla fine, al centro del racconto (dei racconti, verrebbe da dire…), c’è la catarsi di un burattino che si fa bambino e poi uomo. Quel Pinocchio ribelle e disincantato, che per Garrone ha il volto dolce e impunito di Federico Ielapi, al suo esordio sul grande schermo. E alla fine, come nel libro di Collodi, nel celebre adattamento tv di Luigi Comencini e, in parte, in A.I. – Intelligenza Artificiale di Steven Spielberg, Pinocchio è anche una grande storia tra un padre e un figlio, che rimarca l’importanza dell’amore, altra chiave centrale per Matteo Garrone e di una favola inesauribile, dove i bambini diventano grandi e i grandi diventano bambini.
Qui la nostra intervista a Matteo Garrone, Roberto Benigni e Federico Ielapi:
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