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Perché dovete vedere Un sogno chiamato Florida

La miseria, il degrado, ma anche la poesia, i bambini, i colori e i sogni. Il film di Sean Baker? Già un cult

Cos’è Un sogno chiamato Florida? Un progetto, innanzitutto, per riuscire a portare al cinema una realtà sconosciuta al di fuori dei confini di Orlando, in Florida. C’è degrado, miseria, povertà alle spalle di Disneyworld – ora lo sappiamo – e dietro tutto questo, solitamente, si nasconde sempre un ingrediente fondamentale: la vita, quella vera. Senza fronzoli, patinature, abbellimenti, ma quella concreta di chi, per un motivo o per l’altro, non può permettersi una vera casa ed è costretto a vivere in motel trasformati in condomini. Vita vera, reale, in cui, come spesso accade, ci sono i portatori sani di energia: i bambini.

I tre bambini protagonisti di Un sogno chiamato Florida.

E qui cascano tutti: Un sogno chiamato Florida è in fondo la solita storia di bambini che si muovono in contesti degradati mentre gli adulti intorno a loro si arrabattano per trovare una soluzione ai loro problemi, incauti e inconsapevoli. Beh, non è tanto vero. Mooney, Scooty e Jansey – e Dicky, quando non è in punizione – vivono in una effettiva situazione di degrado, certo. Loro lo sanno. Lo sanno chiusi nelle loro case che non sono case, nei loro abiti di seconda mano, quando chiedono spiccioli ai passanti per un gelato o quando prendono il pane dal pullmino dalla carità. Lo sanno. Ma a differenza degli adulti, riescono a conviverci.

Il regista Sean Baker sul set con Willem Dafoe.

Un sogno chiamato Florida è un mosaico di colori. Colori carichi, saturati, magici, facciate di motel, il verde degli alberi, il bianco del sundae alla vaniglia. Il sole che acceca un’estate fatta di corse per strada, temporali improvvisi e avventure uniche, pericolose, cariche – anche loro, anche troppo. Sono bambini adulti quelli che conoscono un linguaggio che non gli dovrebbe appartenere, che si allontanano da casa, che ridono e sudano e vivono. Ma mai sopravvivono.

Willem Dafoe in una scena del film.

E poi sì, gli adulti. Che non trovano un lavoro per mantenere figli avuti quando forse erano ancora troppi piccoli – i bambini adulti, appunto -, che cercano di tenersi quello che hanno per riuscire a dare a questi bambini un futuro, o presunto tale. E chi invece non ce la fa. C’è chi ci prova, come Halley, e arriva fare cose orrende pur di farcela. E cade. E quando – seduto in sala – lo spettatore lo scopre, lo capisce, si rende conto che la genesi di Un sogno chiamato Florida è quanto di più poetico sia stato creato negli ultimi anni.

La speranza dentro i colori dell’arcobaleno.

A un certo punto ecco l’ansia che possa succedere qualcosa di irreparabile. E qualcosa succede. E si sapeva, è giusto, gli eventi erano inevitabili. E allora si piange, perché non si può fare altro, perché scappare non è la soluzione, ma a sei anni la tua vita si regge su sogni, speranze e sputi, tra un po’ inizierà la scuola e ci sarà ancora una nuova avventura, ma questa non deve finire così. Ed ecco il sorriso di Halley, che fissa Mooney che mangia fragole e lamponi e quell’adulta consapevolezza dietro a una miriade di tatuaggi e quell’azzurro sbiadito nei capelli.

E allora cos’è la vera magia se non prendersi per mano e andare lontano, dove nessuno possa trovarti, come solo gli amici veri sanno fare? E quanto è meravigliosa Brooklyn a ficcarsi le dita in bocca e ritornare, per un attimo, quella bambina di sei anni che ha dimenticato essere? La musica – o meglio, la sua assenza – si spegne e restiamo lì, a fissare lo schermo. Il peso sul cuore non c’è più, perché ormai Mooney e Jansey ce lo hanno ridotto a brandelli. La speranza è tangibile come un castello incantato. Gli adulti non hanno sempre tutte le risposte. Ma i bambini sì.

Curiosi? Ecco il trailer di Un sogno chiamato Florida:

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