ROMA – «Monica Vitti no morirá nunca», ha scritto Elsa Fernández-Santos, critica de El País, e ha talmente ragione che forse questo articolo dovrebbe già chiudersi qui. «Monica Vitti non morirà mai», perché non può morire chi già è immortale e quindi la partenza di Monica Vitti – scomparsa a novant’anni, dopo un esilio volontario di oltre venti – va celebrata anche e soprattutto per tramandarne la conoscenza ai più giovani. Quando scompaiono i grandi ci sono diversi modi per affrontare la perdita: spesso ci si concentra sul ricordo, altre volte sull’importanza del lavoro dell’artista, altre ancora sull’eredità che lascia. Nel caso di Maria Luisa Ceciarelli, che divenne poi Monica Vitti, quello che rimane è una modernità abbagliante, quasi incredibile considerando gli anni trascorsi e la rivoluzione comunicativa avvenuta negli ultimi trent’anni.
Eppure basta poco – un’immagine o un vecchio manifesto – per rimanere folgorati dal volto senza tempo dell’attrice, tanto che se andate a rivedervi i poster di un cinecomic ante litteram come Modesty Blaise – La bellissima che uccide, tratto dalle strisce di Peter O’Donnell, la Vitti sembra addirittura più giovane e moderna della Black Widow di Scarlett Johansson. Possibile? Sì. E che dire dell’alienazione di Antonioni e dei monologhi di Deserto rosso? Non parlano forse di oggi e del mondo spezzato con cui abbiamo a che fare? «Ma perché devo avere sempre bisogno degli altri? Io devo essere cretina. Sai cosa vorrei? Tutte le persone che mi hanno voluto bene, averle qui attorno a me come un muro».
Sapeva essere bellissima – ricordate La notte tra Mastroianni e Jeanne Moreau? – e poi enigmatica, misteriosa, tormentata, ma ad un certo punto ecco la maschera comica, irregolare, quasi chapliniana con quella romanità meravigliosa che rendeva il suo splendore ancora più evidente e rendeva lei una donna ancora più unica e autentica. Assolutamente autentica. «Quante lacrime! Quanta felicità! Avete mai amato? Avete mai sofferto per amore? No? E allora che state a guarda’?», urlava senza vergogna la sua Adelaide in Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) in cui lei, tra Mastroianni e Giannini, era di una bellezza imperfetta, disordinata, confusa. A volte anche trascurata, per questo irresistibile. Perché era come la vita, non come il cinema.
Per capirne la grandezza basterebbe poi scorrere semplicemente la filmografia e spulciare i nomi dei registi: c’è Antonioni, ma anche Monicelli, ci sono Scola e poi Buñuel, Sordi e Joseph Losey, Dino Risi e Roger Vadim. Non c’era limite, non c’era genere, non c’erano confini. C’era solo lei. Adesso rimane tutto lì, basta prendersi il tempo e tornare indietro (riscoprite in streaming La pacifista di Miklós Jancsó), quello che invece dobbiamo portare avanti e raccontare è l’incredibile modernità di Maria Luisa che un giorno decise di prestare la sua esistenza a Monica, perché una vita non le sembrava proprio abbastanza. E come direbbe la sua Adelaide a questo punto: «E non parlare, prego. I grandi dolori sono muti. Saluta questa casa, questi oggetti che ci videro felici e mai più rivedrai…». Addio Monica, amore nostro.
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